Le Mille e una Notte Le Avventure del Califfo Harun Ar Rashid.

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LE MILLE E UNA NOTTE - LE AVVENTURE DEL CALIFFO HARUN AR RASHID

Sire, vi ho già parlato parecchie volte di avventure capitate al califfo Harùn ar-Rashìd; gliene sono però capitate molte altre, e questa non è certo la meno interessante. Si presentò un giorno a lui il suo gran visir Giàafar per ricordargli che in quel giorno aveva deciso di fare un giro in incognito per la città per controllare il buon funzionamento dell'ordine. «L'avevo dimenticato», rispose il califfo, «e tu me ne fai ricordare molto a proposito. Va dunque a cambiarti d'abito, mentre io farò lo stesso.» Essi indossarono ciascuno un abito da mercante straniero, e con tale travestimento uscirono soli da una porta segreta del giardino del palazzo, che dava sulla campagna. Percorsero una parte delle mura esterne della città, fino alle rive dell'Eufrate, restando a una certa distanza dalla porta della città, senza aver osservato nulla che fosse contro il buon ordine. Attraversarono il fiume con un battello, e dopo aver completato il giro dall'altra parte della città, opposta a quella già percorsa, ripresero la via del ponte che congiungeva le due parti. Percorsero il ponte, e all'estremità trovarono un cieco molto vecchio che chiedeva l'elemosina. Il califfo si volse e gli pose una moneta d'oro in mano. Il cieco all'istante gli prese la mano e lo trattenne, dicendogli: «O persona caritatevole, chiunque voi siate, a cui Dio ha ispirato il pensiero di farmi l'elemosina, non rifiutatemi la grazia che vi chiedo di darmi uno schiaffo: io l'ho meritato, e anche un più grande castigo!». Ciò detto lasciò libera la mano del califfo perché gli desse lo schiaffo, ma per timore che passasse oltre senza farlo, lo trattenne per il vestito. Il califfo sorpreso della domanda del cieco, gli disse: «Buon uomo, io non posso concederti ciò che mi chiedi; mi guarderei bene dal cancellare il merito della mia elemosina trattandoti male, come tu vuoi che io faccia». Ciò detto, fece uno sforzo per liberarsi dalle mani del cieco: ma costui che s'era immaginata la ripugnanza del suo benefattore, per l'esperienza che ne aveva da lungo tempo, fece uno sforzo per trattenerlo, soggiungendo: «Ah, signore, perdonate la mia audacia e la mia importunità datemi vi prego uno schiaffo, o riprendetevi la vostra elemosina; io non posso riceverla che a questa condizione, senza contravenire ad un solenne giuramento che ho fatto davanti a Dio: se ne sapeste la ragione, sareste d'accordo con me!». Il califfo che non voleva essere trattenuto oltre, cedette all'insistenza del cieco, e gli dette uno schiaffo assai leggero. Il cieco lo lasciò subito libero, ringraziandolo e benedicendolo. Il califfo continuò il suo cammino col gran visir, cui disse, quando si furono un po' allontanati: «Bisogna che la ragione che induce questo cieco a comportarsi in quel modo con tutti quelli che gli fanno l'elemosina sia ben grave. Avrei piacere d'esserne informato; perciò ritorna da lui, digli chi sono e che non manchi domani di trovarsi al palazzo all'ora della preghiera pomeridiana, perché voglio parlargli». Il gran visir ritornò sui suoi passi, fece l'elemosina al cieco, e, dopo avergli dato uno schiaffo, gli comunicò l'ordine del califfo. Poi se ne andò a raggiungerlo. Essi rientrarono in città, e passando per una piazza, vi trovarono un gran numero di spettatori che guardavano un giovane ben vestito, montato su una cavalla bianca, che spingeva a spron battuto intorno alla piazza maltrattandola crudelmente a colpi di frusta e di speroni, senza posa, così che quella povera bestia era tutta coperta di schiuma e di sangue. Il califfo, sorpreso dalla crudeltà del giovane, si fermò per chiedere quale ragione avesse quel giovane di maltrattare la sua giumenta; seppe che tutti ne ignoravano il motivo, ma che già da qualche tempo ogni giorno, alla stessa ora, egli la sottoponeva a quel penoso esercizio. Essi continuarono a camminare, e il califfo disse al gran visir di prendere bene nota di quella piazza, e di non mancare di far venire da lui il giorno dopo quel giovane, alla stessa ora del cieco. Prima che il califfo arrivasse al palazzo, in una strada che da molto tempo non aveva percorsa, notò un edificio costruito recentemente, che gli parve la casa di qualche signore della corte. Chiese al gran visir se sapesse a chi apparteneva. Il gran visir rispose che l'ignorava, ma che sarebbe andato subito ad informarsene. Infatti interrogò un vicino, che gli disse che quella casa apparteneva a Cogia Hassan, soprannominato Alhabbàl, perché aveva esercitato il mestiere di cordaio e che egli stesso l'aveva veduto in grande povertà. Senza che si sapesse in qual modo la fortuna lo aveva favorito, egli ora aveva acquistato beni così considerevoli da poter sostenere molto onorevolmente e splendidamente le spese fatte. Il gran visir raggiunse il califfo e gli riferì quanto aveva saputo. «Voglio vedere questo Cogia Hassan Alhabbàl», gli disse il califfo, «va a dirgli che si trovi domani al mio palazzo, alla stessa ora degli altri due.» Il gran visir non mancò di eseguire gli ordini del califfo. L'indomani, dopo la preghiera pomeridiana, il califfo rientrò nel suo appartamento, e il gran visir vi introdusse subito i tre personaggi di cui abbiamo parlato e li presentò al califfo. Essi si prostrarono davanti al trono, e il califfo, quando si furono rialzati, chiese al cieco come si chiamasse: «Io mi chiamo Bàba-Abdallà», rispose il cieco. «Bàba-Abdallà», soggiunse il califfo, «la tua maniera di chiedere l'elemosina mi parve ieri così strana, che se non fossi stato trattenuto da altre considerazioni, mi sarei ben guardato dall'essere compiacente verso di te. Ti avrei impedito fin da quel momento di dare al pubblico lo scandalo che gli dai. Ti ho fatto venir qui per sapere qual è la ragione che ti ha spinto a fare un giuramento tanto indiscreto quanto il tuo, e da quanto mi dirai, giudicherò se hai fatto bene e se debba permetterti di continuare una attività che mi sembra di cattivissimo esempio. Dimmi dunque, senza nulla celarmi, come mai ti è venuta questa stravagante idea. Ti ripeto, non celarmi nulla, perché voglio saperlo assolutamente!» Bàba-Abdallà, intimidito da questo rimprovero, si prostrò un'altra volta con la fronte a terra davanti al trono del califfo, e dopo essersi rialzato, disse: «Gran principe dei credenti, chiedo umilmente perdono alla maestà vostra dell'audacia con cui osai esigere da lei e costringerla a fare una cosa che per vero sembra priva di senso. Riconosco il mio delitto; ma siccome non avevo riconosciuto la maestà vostra imploro la sua clemenza, e spero vorrà perdonare la mia ignoranza. In quanto al dire che la mia azione è stravagante, confesso che lo è, che deve sembrar tale agli occhi di tutti gli uomini. Ma davanti a Dio è una penitenza leggerissima per un peccato enorme di cui sono colpevole, e che non espierei neanche se tutti i mortali mi riempissero di schiaffi. La maestà vostra potrà giudicarne, quando, attraverso il racconto della mia storia, che ora le farò per obbedire ai suoi ordini, avrà saputo qual è questo enorme delitto».

STORIA DEL CIECO BABA-ABDALLA

Gran principe dei credenti, continuò Bàba-Abdallà, nacqui a Bagdàd ed ereditai alcuni beni da mio padre e da mia madre, che morirono ambedue a pochi giorni di distanza l'uno dall'altra. Quantunque io fossi in un'età poco avanzata, nondimeno non imitai le abitudini dei giovani, che dissipano le ricchezze in spese inutili e nella dissolutezza. Al contrario non lasciai nulla d'intentato per aumentarle con la mia attività e con le mie cure. Alla fine ero talmente ricco che possedevo io solo ottanta cammelli, che noleggiavo ai mercanti delle carovane e che mi fruttavano grosse somme a ogni viaggio che facevo, per accompagnarli in differenti luoghi dell'impero della maestà vostra. Ero felice, ma avevo un ardente desiderio di diventare più ricco; un giorno mentre ritornavo da Bassora con i miei cammelli che avevo condotti carichi di mercanzie destinate a essere mandate in India, e li facevo pascolare in un luogo molto lontano da ogni abitazione, dove mi ero fermato per la bontà dei pascoli, un derviscio che andava a Bassora a piedi mi venne incontro, e si sedette vicino a me per riposarsi. Io gli chiesi da dove venisse e dove andasse, ed egli mi fece le stesse domande; poi, dopo aver soddisfatta la nostra curiosità, mettemmo in comune le nostre provviste e mangiammo insieme. Mentre mangiavamo, dopo aver parlato di molte cose indifferenti, il derviscio mi disse che conosceva un luogo segreto non molto lontano da dove eravamo, dove erano raccolte ricchezze tanto immense che quando avessi caricato i miei ottanta cammelli dell'oro e delle gemme che avrei potuto prendervi, sarebbe sembrato quasi intatto. Questa buona notizia mi sorprese ed insieme mi allettò. La gioia che provavo internamente faceva sì che non potessi più contenermi. Non credevo il derviscio capace di dirmi una menzogna, e perciò lo abbracciai, dicendogli: «Buon derviscio, vedo bene che voi vi curate poco dei beni del mondo: a che può servirvi allora essere a conoscenza di questo tesoro? Voi siete solo e potete trasportarne poco: insegnatemi dov'è, io ne caricherò i miei ottanta cammelli, e ve ne regalerò uno, in segno di riconoscenza per il bene e il piacere che m'avrete fatto». Io offrivo poca cosa, è vero, ma mi sembrava molto, perché tutt'a un tratto una grande avarizia si era impadronita del mio cuore, dopo che lui m'aveva fatta simile confidenza. Pensavo che i settantanove carichi che mi sarebbero rimasti, fossero ben poca cosa, in confronto a quello di cui mi sarei privato, abbandonandoglielo. Il derviscio, che vide la mia strana passione per le ricchezze, non si scandalizzò della irragionevole offerta che gli avevo fatta. «Fratello mio», mi disse, senza muoversi, «vedete bene da voi stesso che quanto mi offrite non è proporzionato al beneficio che chiedete da me. Io avrei potuto non parlarvi di questo tesoro e custodire il mio segreto. Ve ne ho parlato, perché avevo e ho ancora desiderio di farvi del bene, e di darvi ragione di ricordarvi di me per sempre, facendo la vostra e la mia fortuna. Io ho dunque un'altra proposta più giusta da farvi: spetta a voi di vedere se vi conviene. Voi dite», continuò il derviscio, «che avete ottanta cammelli, io sono pronto a condurvi dov'è il tesoro; li caricheremo voi e io, di tanto oro e pietre preziose quanto ne potranno portare, a condizione che, quando li avremo caricati, me ne cederete la metà col loro carico, tenendo per voi l'altra metà; dopo di che ci separeremo e li condurremo dove meglio ci parrà, voi dalla vostra parte e io dalla mia. Vedete che la divisione è perfettamente giusta e che se mi date quaranta cammelli, avete anche per mio mezzo di che comprarne un altro migliaio.» Non potevo non riconoscere che la condizione propostami dal derviscio fosse giustissima. Però, senza pensare alle grandi ricchezze che avrei acquistato accettando, considerai una grande perdita la cessione della metà dei miei cammelli, specialmente perché il derviscio non sarebbe stato meno ricco di me. Insomma pagavo già con l'ingratitudine un beneficio puramente gratuito che non avevo ancora ricevuto. Ma era inutile riflettere: bisognava accettare la condizione, per non dovermi pentire per tutta la vita di avere per colpa mia perso l'occasione di procurarmi una immensa fortuna. Nel momento stesso radunai i miei cammelli e partimmo insieme. Dopo aver camminato per qualche tempo, arrivammo in un vallone assai spazioso, ma il cui ingresso era assai stretto. I cammelli vi potevano passare uno alla volta; ma siccome poi il terreno si allargava, vi trovarono posto tutti insieme senza imbarazzarsi. Le due montagne che formavano questo vallone, chiudendolo come in un semicerchio all'estremità, erano così alte, ripide e impraticabili, che non c'era da temere che qualche mortale ci potesse scorgere. Quando infine fummo giunti tra quelle due montagne, il derviscio mi disse: «Non andiamo oltre. Fermate i vostri cammelli e fateli coricare sul ventre nello spazio che vedete, in modo che non dobbiamo fare fatica a caricarli, e, quando avrete fatto ciò, procederò all'apertura del tesoro. Dopo aver eseguito quanto il derviscio mi aveva detto, andai a raggiungerlo in gran fretta, e lo trovai con un acciarino in mano che raccoglieva della legna secca per fare del fuoco. Appena ne ebbe fatto, vi gettò del profumo, pronunciando alcune parole di cui non compresi bene il senso, e subito un grosso fumo si levò nell'aria. Egli spartì in due quel fumo, e nello stesso momento, quantunque la roccia che stava tra le due montagne, e che si innalzava altissima a perpendicolo, sembrasse non avere nessuna apertura, si aprì una specie di porta a due battenti dello stesso materiale della roccia con un artificio assai ammirevole. Quest'apertura lasciò vedere, in un grande affossamento scavato nella roccia, un palazzo magnifico, opera piuttosto dei geni che degli uomini, poiché non sembrava che degli uomini avessero potuto nemmeno pensare a una impresa tanto ardita e sorprendente. Ma, gran principe dei credenti, questa osservazione che io faccio ora, non la feci allora. Non ammirai nemmeno le infinite ricchezze che vedevo da tutti i lati, e, senza arrestarmi ad osservare l'ordine che si era tenuto nella disposizione di tanti tesori, mi gettai sul primo mucchio di monete d'oro che mi si presentò davanti, come l'aquila che piomba sulla preda, e cominciai a metterne nei sacchi, di cui mi ero caricato per quanto potevo portarne. I sacchi erano grandi e li avrei volentieri riempiti tutti, ma bisognava tener conto delle forze dei miei cammelli. Il derviscio fece lo stesso; ma io m'accorsi che egli preferiva le pietre preziose e quando me ne ebbe fatta capire la ragione, seguii il suo esempio e prendemmo assai più pietre preziose che monete d'oro. Terminammo finalmente di riempire i nostri sacchi, e ne caricammo i cammelli. Non rimaneva più che da chiudere il tesoro e andarcene. Prima di partire il derviscio rientrò nel tesoro, e siccome vi erano parecchi grandi vasi di oreficeria di diverse fogge e materiali preziosi, osservai che prese da uno di quei vasi una cassetta di un legno che mi era sconosciuto, e se la mise in petto, dopo avermi fatto vedere che conteneva soltanto una specie di pomata. Il derviscio per chiudere il tesoro fece la stessa cerimonia eseguita per aprirlo, e pronunciò certe parole, dopo le quali la porta del tesoro si richiuse e la roccia ci parve tutta unita come prima. Allora dividemmo i nostri cammelli che facemmo alzare coi loro carichi. Io mi misi a capo dei quaranta che mi ero riservati, e il derviscio a capo degli altri che gli avevo ceduti. Sfilammo per dove eravamo entrati nel vallone, e camminammo insieme fino alla grande strada dove dovevamo separarci, il derviscio, per continuare la sua strada verso Bassora, e io per ritornare a Bagdàd: per ringraziarlo di un così grande beneficio, usai le parole più adatte a dimostrargli la mia riconoscenza, per avermi preferito ad ogni altro mortale nel farmi parte di tante ricchezze. Ci abbracciammo con grande gioia, e, dopo esserci detto addio, ci allontanammo ciascuno per la propria destinazione. Avevo appena fatti alcuni passi per raggiungere i miei cammelli, che camminavano sempre per la strada in cui li avevo messi, quando il tarlo dell'ingratitudine e dell'invidia si impadronì del mio cuore; deplorai la perdita dei miei quaranta cammelli, e ancor più delle ricchezze con cui li avevo caricati. «Il derviscio non ha bisogno di tutte quelle ricchezze», dicevo tra me, «perché, essendo padrone del tesoro, ne avrà quante ne vorrà.» In preda alla più nera ingratitudine, decisi tutt'a un tratto di rubargli i cammelli col loro carico. Per eseguire il mio disegno cominciai col far fermare i miei cammelli. Poi corsi dietro al derviscio, che chiamai con tutta forza, per fargli comprendere che avevo ancora qualche cosa da dirgli, e gli feci segno di far arrestare i suoi e di aspettarmi. Egli udì la mia voce e si fermò. Quando l'ebbi raggiunto gli dissi: «Fratello mio, non appena vi ho abbandonato, ho considerato una cosa cui non avevo pensato prima, e a cui forse non avevate pensato nemmeno voi. Voi siete un buon derviscio abituato a vivere tranquillamente, libero dalle preoccupazioni delle cose del mondo, e senza altro pensiero che quello di servire Dio. Voi non sapete forse a quale fatica vi esponete, caricandovi della direzione d'un così gran numero di cammelli. Se volete credere a me, ne condurrete con voi trenta soltanto, e penso che avrete ancora molta difficoltà a governarli. Potete credermi, perché ne ho una grande esperienza». «Credo che abbiate ragione», rispose il derviscio che si accorse di non essere in condizione di poter obiettare, «e confesso che non ci avevo pensato. Cominciavo già ad essere inquieto su quello che mi dite. Scegliete dunque i dieci che preferite, prendeteveli ed andate con Dio.» Io ne scelsi dieci, e, dopo averli voltati, li misi in cammino per andare a raggiungere i miei. Non credevo di trovare nel derviscio tanta facilità a lasciarsi persuadere: il che aumentò la mia avidità, e mi lusingai che non avrei durata molta fatica ad ottenerne altri dieci. Difatti, invece di ringraziarlo del regalo che mi faceva: «Fratello mio», gli dissi di nuovo, «per l'interesse che prendo al vostro riposo, non posso risolvermi a separarmi da voi, senza pregarvi di considerare ancora una volta quanto sia difficile condurre trenta cammelli carichi per un uomo come voi, non abituato a questa fatica. Voi vi trovereste assai meglio se mi faceste un'altra grazia simile a quella che m'avete fatta. Ciò che vi dico, come ben vedete, non è tanto per me e per il mio interesse, quanto per farvi un gran piacere; fate dono di altri dieci cammelli a un uomo come me, che non fa più fatica a condurne cento che uno solo». Il mio discorso ottenne l'effetto desiderato: e il derviscio mi cedette senza resistenza i dieci cammelli che gli domandavo, così che gliene restarono solo venti, e io mi vidi padrone di sessanta carichi, il cui valore sorpassava le ricchezze di molti sovrani. Si potrebbe pensare che, dopo ciò, avrei dovuto essere contento: ma, o gran principe dei credenti, io ero come un idropico, che più beve più ha sete, e mi sentii più infiammato di prima dalla brama di procurarmi i venti cammelli che erano rimasti al derviscio. Raddoppiai dunque le mie sollecitazioni e le mie insistenze per convincere il derviscio a concedermene ancora dieci. Egli vi si arrese di buona grazia; poi l'abbracciai, lo baciai, gli feci delle carezze, scongiurandolo di non rifiutarmi anche gli ultimi dieci cammelli, e di portare con ciò al colmo la riconoscenza che avrei avuto eternamente per lui, ed egli mi colmò di gioia, annunciandomi che acconsentiva. «Fatene un buon uso», soggiunse, «e rammentatevi che Dio può toglierci le ricchezze come ce le dà, se non ce ne serviamo per soccorrere i poveri.» Il mio accecamento era così grande che non fui in condizione di profittare d'un consiglio così saggio. Non mi accontentai di vedermi possessore dei miei ottanta cammelli, e di sapere che erano carichi d'un tesoro inestimabile che doveva rendermi il più fortunato degli uomini. Mi venne in mente il piccolo vaso di pomata, di cui il derviscio s'era impossessato, e che mi aveva mostrato, e pensai che poteva essere qualche cosa di più prezioso di tutte le ricchezze di cui gli ero debitore. «Il luogo in cui lo ha preso», dicevo tra me, «mi induce a pensare che racchiuda qualche cosa di misterioso.» Questo mi decise a fare in modo di ottenerlo. Stavo abbracciandolo e dicendogli addio, quando gli dissi: «A proposito, che volete fare di quel vasetto di pomata? Mi sembra così poca cosa che non vale la pena che lo portiate con voi: vi prego dunque di farmene dono, tanto più che un derviscio come voi, che ha rinunciato alle vanità del mondo, non ha bisogno di pomate». Dio avesse voluto che egli me l'avesse rifiutata! Ma se l'avesse fatto, io ero fuori di me, ero forte e gliel'avrei tolta, per avere piena soddisfazione, per poter dire che non gli era rimasto niente del tesoro, malgrado la riconoscenza che gli dovevo. Invece di rifiutarmela, il derviscio me la tese, nel più cortese dei modi: «Tenete, fratello», mi disse, «eccolo; che per questo non debba accadere che siate scontento. Se posso fare qualche altra cosa per voi, non avete che da domandare ed io son pronto a soddisfarvi». Quand'ebbi il vasetto tra le mani, l'aprii, e, esaminando la pomata, dissi: «Poiché siete così buono, e non cessate di usarmi cortesie, vi prego di volermi dire qual è l'uso di questa pomata». «Essa ha un effetto sorprendente e meraviglioso», rispose il derviscio. «Se voi ne applicate un poco intorno all'occhio sinistro e sulla pupilla, essa farà apparire davanti ai vostri occhi tutti i tesori che sono nascosti nelle viscere della terra, ma se ne applicate anche all'occhio destro vi renderà cieco.» «Prendete il vasetto», dissi al derviscio, porgendoglielo, «e applicatemi voi stesso un poco di pomata all'occhio sinistro. Voi sapete fare ciò meglio di me che sono impaziente di avere la prova di una cosa che mi sembra incredibile.» Il derviscio acconsentì di buon grado, mi fece chiudere l'occhio sinistro e mi applicò la pomata: quando l'ebbe fatto, aprii l'occhio, e vidi che mi aveva detto il vero. Difatti scorsi ricchezze così prodigiose e così varie, che non mi sarebbe possibile farne un giusto rendiconto. Ma siccome io ero obbligato a tener l'occhio destro chiuso con la mano, e ciò mi stancava, pregai il derviscio di applicarmi di quella pomata anche intorno a quest'occhio. «Io sono pronto a farlo», mi disse il buon derviscio, «ma dovete ricordarvi che vi ho avvertito che se ne mettete sull'occhio destro, diverrete cieco. Tale è la virtù di questa pomata, ed è necessario che ve ne facciate una ragione.» Non volli persuadermi che il derviscio mi dicesse la verità, e anzi immaginai che vi fosse ancora qualche nuovo mistero che volesse tenermi nascosto. «Fratello mio», risposi sorridendo, «vedo bene che volete burlarvi di ne, poiché non è naturale che questa pomata produca due effetti opposti.» «Nondimeno la cosa sta come vi dico», soggiunse il derviscio, chiamando Dio a testimonio, «e voi dovete credere alla mia parola, poiché non so nascondere la verità.» Io non volli fidarmi della parola del derviscio che mi parlava da uomo d'onore. La brama di contemplare a mio agio tutti i tesori della terra, e di goderne tutte le volte che mi sarebbe piaciuto, fece sì che non volli ascoltare le sue raccomandazioni. Ero prevenuto e immaginai che quella pomata che, applicata all'occhio sinistro aveva la virtù di farmi vedere tutti i tesori della terra, aveva forse la virtù, se veniva posta sull'occhio destro, di mettere quegli stessi tesori a mia disposizione. In questo pensiero mi ostinai a sollecitare il derviscio ad applicarmene egli stesso intorno all'occhio destro: ma lui si rifiutò costantemente di farlo, dicendomi: «Dopo avervi procurato un grande bene, fratello mio, non posso consentire a farvi un così gran male. Considerate voi stesso quale sciagura sia quella di esser privo della vista e non costringetemi alla triste necessità di compiacervi in una cosa di cui dovreste pentirvi per tutta la vita». Ma io spinsi la mia ostinazione fino in fondo, dicendogli fermamente: «Fratello mio, vi prego di non fare tante difficoltà. Voi m'avete concesso quanto v'ho domandato fino ad ora e volete che ora mi separi da voi non soddisfatto per una cosa di così poca importanza? In nome del cielo concedetemi quest'ultimo favore, e qualunque cosa accada, io non ve ne riterrò responsabile e la colpa sarà solo mia». Il derviscio oppose tutta la resistenza che gli fu possibile: ma come vide che io ero forte e potevo costringerlo, mi disse: «Poiché lo volete assolutamente, vi accontenterò!». E prese un poco di quella fatale pomata, me l'applicò sull'occhio destro che io tenevo chiuso: ma ohimè! Quando feci per aprirlo non vidi che fitte tenebre e restai cieco come mi vedete. «Ah, sciagurato derviscio», esclamai immediatamente, «ciò che m'avete predetto non era che troppo vero! Fatale curiosità», aggiunsi poi, «desiderio insaziabile di ricchezze, in quale abisso di sciagure mi avete gettato! Comprendo bene che me le sono attirate, ma voi, caro fratello», esclamai di nuovo rivolgendomi al derviscio, «che siete così caritatevole e benefico, fra tanti segreti meravigliosi di cui avete conoscenza, non ne avete qualcuno per rendermi la vista?» «Infelice», mi rispose allora il derviscio, «tu hai solo quello che meriti: l'accecamento del cuore t'ha cagionato quello del corpo. E' vero che io so molti segreti, come hai potuto accorgertene nel poco tempo in cui sono stato con te, ma non ne so nessuno, per renderti la vista. Rivolgiti a Dio, se credi che ve ne sia uno, poiché non c'è che lui che possa rendertela. Egli t'aveva dato delle ricchezze di cui tu eri indegno, e te le ha tolte e le darà per le mie mani a uomini che siano più riconoscenti di te.» Il derviscio non aggiunse altro, ed io non avevo nulla da replicare. Mi lasciò solo, oppresso dalla confusione e immerso in un dolore così grande da non potersi esprimere e dopo aver radunato i miei ottanta cammelli, li condusse con sé, e proseguì il suo cammino fino a Bassora. Io lo pregai di non abbandonarmi in quello stato doloroso, e di farmi almeno la grazia di condurmi fino alla prima carovana: ma lui fu sordo alle mie preghiere e alle mie grida. Così, privo della vista e di quanto possedevo al mondo, sarei morto di afflizione e di fame, se il giorno successivo una carovana che ritornava da Bassora non mi avesse accolto caritatevolmente e non mi avesse ricondotto fino a Bagdàd. Da uno stato pari a quello dei principi, se non per forza e potenza, almeno per ricchezze e lusso, mi vidi ridotto alla mendicità senza alcuna risorsa. Mi fu necessario domandar l'elemosina, ed è ciò che ho fatto finora. Ma per espiare il mio delitto verso Dio, m'imposi nello stesso tempo la pena di uno schiaffo da ogni persona caritatevole che avesse compassione della mia miseria. Ecco, gran principe dei credenti, la ragione di ciò che ieri parve così strano alla maestà vostra, e che ha suscitato la sua indignazione. Io ne domando di nuovo perdono, sottomettendomi a ricevere il castigo che ho meritato. E se ella si degna di pronunciare il suo giudizio sulla penitenza che mi sono imposta, sono persuaso che la troverà molto leggera e molto inferiore al mio delitto. Quando il cieco ebbe terminata la sua storia, il califfo gli disse: «Bàba-Abdallà, il tuo peccato è grande, ma Dio sia lodato perché te ne ha fatto conoscere l'enormità, e ne hai fatto pubblica penitenza fino ad ora. Basta ormai che tu da ora in avanti la continui in privato, non cessando di chiederne perdono a Dio in ciascuna delle preghiere cui sei obbligato ogni giorno dalla tua religione. E affinché non ne sia distolto dalla preoccupazione di elemosinare il vitto, ti faccio una elemosina per tutta la vita di quattro dramme di argento al giorno che il mio visir ti consegnerà. Non andartene quindi e aspetta che il mio ordine sia eseguito». A queste parole Bàba-Abdallà si prostrò davanti al trono del califfo, e rialzandosi gli espresse la sua gratitudine, augurandogli ogni felicità. Il califfo Harùn ar-Rashìd, contento della storia di Bàba-Abdallà e del derviscio, si rivolse al giovane, che aveva visto maltrattare la giumenta, e gli chiese il suo nome. Il giovane gli disse di chiamarsi Sidi-Numan. «Sidi-Numan», gli disse allora il califfo, «ho visto allevare cavalli e ne ho allevati io stesso; ma non ho visto nessuno trattarli in modo così barbaro come tu trattavi la tua giumenta in piena piazza, con grande scandalo degli spettatori che protestavano abbondantemente. Io non ne fui meno scandalizzato di loro, e poco mancò che non mi facessi riconoscere per rimediare a tale disordine. Il tuo aspetto però non indica che tu sia un uomo barbaro e crudele, e voglio credere che tu agisca così per qualche motivo. So che non è la prima volta che fai subire tale cattivo trattamento alla tua giumenta, e voglio sapere quale è la ragione; ti ho fatto venire qui perché tu me la dica.» Sidi-Numan comprese senza fatica ciò che il califfo esigeva da lui. Quel racconto gli causava pena; infatti cambiò più volte di colore, dimostrando suo malgrado quanto fosse grande l'imbarazzo in cui si trovava. Ciononostante fu necessario risolversi a dirgliene il motivo. Si prostrò prima di parlare davanti al trono del califfo, e, dopo essersi rialzato, tentò di incominciare il racconto, per soddisfare il califfo: ma restò come interdetto, non tanto per la maestà del califfo davanti a cui si trovava, quanto per la natura del racconto che doveva fargli. Quantunque il califfo fosse generalmente impaziente di vedere obbedite le sue volontà, nondimeno non manifestò nessuno sdegno per il silenzio di Sidi-Numan. Egli vide bene infatti che quello o mancava di audacia, o era intimidito dal tono con cui gli aveva parlato, o aveva da dirgli cose di cui avrebbe voluto serbare il segreto. «Sidi-Numan», disse il califfo per rassicurarlo, «fatti coraggio ed immagina che non a me tu debba raccontare ciò che ti chiedo, ma a qualche amico. Se c'è qualche cosa nel tuo racconto che ti causa pena o da cui credi che io possa essere offeso, te lo perdono fin d'ora. Liberati quindi da tutte le inquietudini, parlami a cuore aperto, e non celarmi nulla, come se io fossi il tuo migliore amico.» Sidi-Numan, rassicurato da queste parole, cominciò a parlare così: «Gran principe dei credenti, per quanto sia turbato dalla presenza di vostra maestà, so di avere forza sufficiente per superare il mio turbamento e obbedire al suo ordine, dando tutte le spiegazioni che ella esige. Non oso dire di essere perfetto, ma non sono neppure così malvagio per aver commesso o aver desiderato commettere azioni illegali che possano ora farmi temere la sua severità. Malgrado le mie buone intenzioni, ho però peccato per ignoranza. Per questo non dico di aver fiducia nel perdono che la maestà vostra mi ha già accordato senza avermi ascoltato; mi sottometto invece alla sua giustizia e che sia punito, se l'ho meritato. Riconosco che il modo con cui tratto la mia giumenta e di cui la maestà vostra è stata testimonio è strano e crudele, ma spero che vostra maestà troverà che ne ho motivo e mi giudicherà degno più di compassione che di rimprovero. Ma non voglio prolungare questa premessa. Ecco ciò che mi è capitato».

Linea flashing backefro

Linea flashing backefro

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STORIA DI SIDI-NUMAN

Gran principe dei credenti, continuò Sidi-Numan, non parlo alla maestà vostra della mia nascita, poiché non fu tale da meritare che vi si presti attenzione. Riguardo ai beni di fortuna, i miei antenati con la loro vita economa me ne hanno lasciati quanti potevo desiderare per vivere agiatamente, senza ambizioni e senza essere a carico di nessuno. In tale situazione, la sola cosa che potesse render completa la mia felicità era di trovare una donna amabile, a cui offrire tutta la mia tenerezza e che, amandomi veramente, volesse dividerla con me. Ma a Dio non è piaciuto di concedermela; anzi me ne ha data una che dal giorno dopo le nozze, ha cominciato a mettere a dura prova la mia pazienza in un modo che possono capire solamente quelli che sono passati attraverso un'esperienza simile. La prima volta che vidi la mia consorte a viso scoperto, dopo che l'ebbero condotta a casa mia con le solite cerimonie, fui lieto di non essere stato ingannato circa la sua bellezza: la trovai di mio gusto e ella mi piacque. Il giorno dopo le nostre nozze ci venne servito un pranzo di più vivande. Io mi recai dove era apparecchiata la tavola, ma non vidi la mia consorte; la feci chiamare e dopo avermi fatto aspettare a lungo, ella finalmente giunse. Dissimulai la mia impazienza, e ci mettemmo a tavola, cominciando dal riso che presi con un cucchiaio, come è costume. Mia moglie al contrario, invece di usare il cucchiaio come tutti fanno, trasse da un astuccio una specie di stuzzicadenti, col quale cominciò a prendere il riso ed a portarlo alla bocca grano per grano, poiché non ne conteneva di più. Sorpreso da simile maniera di mangiare, le dissi: «Amina, (poiché questo era il suo nome), avete imparato nella vostra famiglia a mangiare il riso in tale maniera? Fate così perché avete poco appetito, oppure volete contare i grani per non mangiarne più una volta dell'altra? Se fate ciò per risparmio e per insegnarmi a non esser prodigo, non abbiate nessun timore, posso assicurarvi che non andremo in rovina per questo. Abbiamo, grazie a Dio, di che vivere comodamente. Non limitatevi dunque, mia cara Amina, e mangiate come faccio io». Il tono affabile con cui le facevo tali rimostranze sembrava dovere attirarmi qualche risposta cortese: ma senza dirmi una sola parola lei continuò a mangiare nello stesso modo, e per farmi dispetto non mangiò più riso se non di tanto in tanto, ed invece di mangiare gli altri cibi con me, si contentò di portare alla bocca di quando in quando delle briciole di pane, tanto quanto ne avrebbe preso una passera. La sua ostinazione mi scandalizzò; immaginai nondimeno, per farle piacere e per scusarla, che non fosse avvezza a mangiare insieme con gli uomini, meno che mai con un marito, davanti al quale le avevano forse insegnato di avere un contegno che esagerava per semplicità. Pensai anche che avesse già fatto colazione, o, se non l'aveva fatta, si riserbasse di mangiare sola, in libertà. Queste considerazioni m'impedirono di dirle altro che potesse sdegnarla o darle prova di malcontento. Dopo il pranzo mi alzai come se non m'avesse data nessuna ragione di non essere soddisfatto delle sue stravaganti maniere, e la lasciai sola. La sera a cena fu la stessa cosa. L'indomani, e tutte le volte che mangiammo insieme, si comportò sempre nello stesso modo. Io vedevo che non era possibile che una donna potesse vivere col poco nutrimento che prendeva, e che sotto sotto ci doveva essere qualche mistero a me sconosciuto. Ciò mi convinse a dissimulare, e fingere di non badare alle sue azioni, nella speranza che col tempo si abituasse a vivere come avrei desiderato: ma la mia era vana speranza, e ben presto ne fui sicuro. Una notte che Amina credendomi addormentato, si alzò piano piano, e io notai che si vestiva con grandi precauzioni per non far rumore, temendo di svegliarmi. Io non potevo capire per quale motivo interrompesse così il suo sonno, e la curiosità di sapere ciò che avrebbe fatto mi spinse a fingere un sonno profondo. Terminato che ebbe di vestirsi, uscì dalla camera senza fare il minimo rumore. Appena fu uscita, m'alzai, gettandomi la veste sulle spalle, ed arrivai a tempo per scorgere, da una finestra che si apriva sul cortile, che lei apriva la porta di strada ed usciva. Corsi subito allora alla porta che aveva lasciato semiaperta, e col favore del chiaro di luna la seguii finché la vidi entrare in un cimitero vicino alla nostra casa. Allora, protetto dall'ombra d'un muro, dopo aver preso la precauzione di mettermi in modo che non potesse scorgermi, vidi Amina con una ghùl. La maestà vostra non ignora che le ghùl dell'uno e dell'altro sesso sono demoni erranti nella campagna. Essi abitano ordinariamente gli edifici in rovina, e si gettano all'improvviso sui passanti che uccidono e di cui mangiano le carni. In mancanza di passanti vanno la notte nei cimiteri a pascersi della carne dei morti che disotterrano. Fui molto sorpreso quando vidi mia moglie con quella ghùl. Esse disotterrarono un morto che era stato seppellito in quello stesso giorno. La ghùl tagliò dei pezzi di carne a più riprese, e poi li mangiarono insieme, sedute sulla sponda della fossa, parlando tranquillamente mentre facevano un pasto così crudele: ma io ero troppo lontano e non mi fu possibile comprendere qualcosa del loro colloquio, che doveva essere tanto strano quanto il loro pasto, il cui solo ricordo mi fa ancora fremere. Quando esse ebbero terminato quell'orribile pasto, gettarono quanto era rimasto del cadavere nella fossa, e la colmarono con la terra che esse stesse avevano tolto. Io le lasciai fare e ritornai in gran fretta a casa. Entrando lasciai la porta semiaperta come l'avevo trovata, e, dopo esser rientrato nella mia camera, mi coricai di nuovo, fingendo di dormire. Amina rientrò poco dopo senza far rumore, e, spogliatasi, si coricò anche lei soddisfatta, o almeno così immaginai, di essere così ben riuscita nella sua impresa, senza che io me ne fossi accorto. Con lo spirito turbato dall'idea di un'azione tanto barbara e tanto orrenda quanto quella di cui ero stato testimone, e dalla ripugnanza che provavo, vedendomi coricato presso colei che l'aveva commessa, stetti a lungo sveglio prima di riaddormentarmi. Nondimeno dormii, ma d'un sonno così leggero, che la prima voce che si alzò per chiamare alla preghiera pubblica allo spuntare del giorno, mi destò; mi alzai e andai nella moschea. Dopo la preghiera uscii dalla città, e passai la mattina a passeggiare nei giardini e a riflettere sulla via da seguire per obbligare la mia donna a cambiare vita. Respinsi tutti i mezzi di violenza che mi si presentarono alla mente, e risolsi di adoperare solo la dolcezza per allontanarla dalla sua sciagurata inclinazione. Immerso in questi pensieri, giunsi a casa e vi rientrai all'ora del pranzo. Appena Amina mi vide, fece servire e ci mettemmo a tavola. Quando vidi che persisteva a non mangiare il riso se non grano per grano, le dissi con tutta la moderazione possibile: «Amina, voi sapete quanto fui sorpreso il giorno successivo alle nostre nozze, quando vidi che mangiavate il riso in piccola quantità e in un modo di cui ogni altro marito all'infuori di me, sarebbe stato offeso. Voi sapete anche che mi contentai di mostrarvi la pena che ciò mi faceva, pregandovi di mangiare anche delle altre vivande che vi venivano presentate in modi diversi per cercare di indovinare il vostro gusto. Da allora in poi avete visto la nostra tavola sempre servita nello stesso modo, salvo il cambiamento di alcune vivande per non mangiare sempre le stesse cose. Nondimeno le mie rimostranze sono state inutili e fino ad oggi non avete cessato di comportarvi nello stesso modo causandomi la stessa pena. Sono stato zitto per non opprimervi e anche ora mi spiacerebbe di addolorarvi con queste mie parole, ma, Amina, ditemi, ve ne scongiuro, se le vivande che ci sono servite qui non sono migliori della carne dei morti?». Non appena ebbi pronunciato queste ultime parole, Amina, che comprese che l'avevo spiata la notte, fu presa da un furore che sorpassò ogni immaginazione. Il suo viso s'infiammò, gli occhi le uscirono quasi fuori dalle orbite e schiumò di rabbia. Lo stato orribile in cui la vedevo mi riempì di spavento, e rimasi immobile e incapace di difendermi dall'orribile malvagità che ella meditava contro di me, e di cui la maestà vostra resterà assai sorpresa. Nel colmo della sua ira, ella prese un vaso d'acqua che si trovava vicino a lei, v'immerse le dita mormorando tra i denti alcune parole che non compresi, e, gettandomi quell'acqua in viso, mi disse in tono furioso: «Sciagurato, ricevi la punizione della tua curiosità, e diventa cane!». Appena Amina ebbe pronunciate queste parole diaboliche, mi vidi trasformato in cane. La meraviglia che mi procurò quel cambiamento così improvviso e inatteso, m'impedì fin dal principio di salvarmi, e ciò le dette il tempo di prendere un bastone per maltrattarmi. Difatti mi picchiò così forte, che non so come non restassi subito morto. Io credetti di sfuggire alla sua rabbia, fuggendo in cortile, ma lei mi perseguitò con lo stesso furore, e malgrado l'agilità con cui correvo da una parte all'altra per evitarla, non fui sufficientemente destro per difendermi e fui costretto a sopportare molti altri colpi. Stanca finalmente di battermi e di perseguitarmi, e disperata di non avermi ucciso, come avrebbe invece desiderato, pensò un nuovo mezzo per farlo. Ella aprì a metà la porta di strada per schiacciarmi tra i battenti se la avessi passata per fuggire. Benché fossi un cane, dubitai del suo proposito, e poiché il pericolo dà spesso la prontezza per conservare la vita, osservai i suoi movimenti, ingannai la sua vigilanza, e passai così in fretta che mi salvai la vita, eludendo la sua malvagità e me la cavai, avendo solo la coda schiacciata. Guaii per il dolore e mi misi a correre, inseguito da altri cani che non mi risparmiarono i morsi. Per sfuggire alla loro persecuzione, mi rifugiai nella bottega di un macellaio. Egli dapprima mi difese dagli altri cani e li fece fuggire. Io intanto mi nascosi in un angolo. Non trovai però presso quel macellaio l'asilo e la protezione che avevo sperato. Era un superstizioso che aveva idea che i cani fossero animali immondi e per questo pensava di non essersi mai lavato abbastanza, quando per caso era stato sfiorato da uno di essi. Dopo che i miei persecutori si furono ritirati, egli tentò ripetutamente di scacciarmi, ma ero nascosto e fuori tiro. Così passai la notte, suo malgrado, nella bottega; avevo gran bisogno di riposo per rimettermi dai maltrattamenti di Amina. Per non annoiare vostra maestà con particolari poco importanti, non mi soffermerò sulle tristi riflessioni che feci in quella notte sulle mie condizioni; farò notare soltanto che il giorno dopo il mio ospite, di ritorno da un giro d'acquisti, riportò una gran quantità di carne. Mentre esponeva la merce, uscii dal mio nascondiglio e uscii dalla bottega. Vedendo che molti cani, attirati dall'odore della carne, si riunivano sulla soglia della bottega, in attesa che egli gettasse loro qualche boccone, mi unii a loro, come un mendicante. Il mio ospite, forse pensando che non avevo mangiato da quando mi ero rifugiato presso di lui, mi diede la preferenza, gettandomi i bocconi più grossi. Quando ebbe terminato la sua generosa distribuzione, tentai di rientrare nella bottega, agitando la coda per chiedergli come potevo, di farmi questo favore; ma lui fu inflessibile e si oppose al mio tentativo, col bastone alla mano e con un'aria così decisa che fui costretto ad andarmene. Entrai allora nella bottega d'un fornaio, che mi parve un uomo gaio e di buon umore: e infatti lo era. Stava facendo colazione, e, quantunque non avessi dato nessun segno d'aver bisogno di mangiare, mi gettò un pezzo di pane. Prima di gettarmi sul cibo con avidità, come fanno gli altri cani, lo guardai facendogli un segno col capo e movendo la coda per dimostrargli la mia riconoscenza. Egli fu compiaciuto di quella specie di cortesia e sorrise. Io non avevo bisogno di mangiare; pur nondimeno per fargli piacere presi il pezzo di pane e lo ingoiai lentamente per mostrargli che lo facevo per rendergli onore. Egli notò tutto, ed ebbe la bontà di sopportare la mia presenza davanti alla sua bottega. Io vi restai seduto e rivolto dalla parte della strada per fargli osservare che da quel momento non gli domandavo se non la sua protezione. Me la concesse, e inoltre mi fece delle carezze che mi diedero il coraggio d'introdurmi in casa sua: ma lo feci in modo da fargli comprendere che entravo solo col suo permesso. Non si oppose, al contrario, mi mostrò un luogo dove potevo mettermi senza essergli d'incomodo; presi possesso del posto, e lo conservai per tutto il tempo in cui rimasi in casa sua. Vi fui sempre trattato bene, ed egli non faceva colazione, non pranzava, non cenava senza che io avessi la mia parte più che abbondante. Da parte mia avevo per lui tutta l'affezione e tutta la fedeltà che poteva esigere dalla mia riconoscenza. I miei occhi erano sempre fissi su di lui, ed egli non faceva un passo per casa senza che io gli tenessi dietro. Facevo lo stesso quando aveva tempo per fare qualche passeggiata per la città, per i suoi affari. Ero tanto più attento, in quanto mi ero accorto che la mia fedeltà gli piaceva e che spesso, quando aveva l'idea di uscire, e io non me ne accorgevo, mi chiamava col nome di Rosso che mi aveva imposto. A questo nome io mi precipitavo dal mio posto nella strada; e saltavo, correvo, sgambettavo davanti alla porta, finché non era uscito, e allora lo accompagnavo fedelmente, seguendolo o correndo davanti a lui e guardandolo di tanto in tanto per mostrargli la mia gioia. Era già molto tempo che stavo in quella casa quando un giorno una donna venne a comprare del pane. Nel pagarlo diede al mio ospite una moneta d'argento falsa insieme ad altre buone. Il fornaio, che si accorse della moneta falsa, la rese alla donna, domandandogliene un'altra in cambio. La donna rifiutò di riprenderla e pretese che fosse buona. Il mio ospite però sostenne il contrario, e nella discussione: «La moneta», disse a quella donna, «è così evidentemente falsa che sono sicuro che perfino il mio cane, che è una bestia, non s'ingannerebbe». «Vieni qua, Rosso», aggiunse, chiamandomi. Alla sua voce io saltai leggermente sul banco, ed il fornaio gettandomi le monete d'argento mi disse: «Vedi, non è forse vero che fra queste c'è una moneta falsa?» Guardai tutte quelle monete, e, mettendo la zampa su quella falsa, la separai dalle altre, guardando il padrone come per mostrargliela. Il fornaio, che si era rimesso al mio giudizio solo per gioco e per divertirsi, fu estremamente sorpreso nel vedere che io avevo saputo distinguerla così bene senza esitare. La donna, convinta della falsità della sua moneta, non ebbe nulla da ridire, e fu obbligata a darne un'altra buona, invece di quella. Appena se ne fu andata, il mio padrone chiamò i vicini ai quali vantò moltissimo le mie capacità, raccontando loro ciò che era accaduto. I vicini vollero averne la prova, e tra tante monete false che mi mostrarono mescolate ad altre di buona lega, non ve ne fu una su cui non mettessi la zampa, separandola da quelle buone. La donna per conto suo non mancò di raccontare a tutte le persone di sua conoscenza che incontrò per via, ciò che le era accaduto. La fama della mia abilità nel distinguere le monete false si diffuse in poco tempo non solo nelle vicinanze, ma anche in tutto il quartiere, e insensibilmente per tutta la città. Non mancavo certo d'occupazioni, per tutta la giornata. Bisognava contentare tutti quelli che venivano a comprare del pane dal mio padrone, dando prova della mia abilità. Ero un'attrattiva per tutti, e la gente veniva dai più lontani quartieri della città per vedere quello che sapevo fare. La mia notorietà procurò al mio padrone tanti affari che a malapena poteva arrivare ad accontentare tutti. Ciò durò a lungo, e il mio padrone non poté fare a meno di confessare ai suoi amici che io valevo un tesoro. Ma questa mia abilità non mancò di suscitare delle invidie. Mi tesero degli agguati per rapirmi, ed egli fu costretto a sorvegliarmi a vista. Un giorno, una donna, attirata da questa novità, venne a comprare del pane come gli altri. Il mio posto abituale era allora sul banco; lei gettò sei monete d'argento davanti a me, tra le quali ve ne era una falsa. Io la scelsi dalle altre, mettendovi la zampa sopra, e la guardai come per domandare se era proprio quella. «Sì», mi disse quella donna, guardandomi, «è proprio quella falsa, non ti sei ingannato!» E continuò a guardarmi ed a studiarmi con ammirazione, mentre io la guardavo in egual modo. Pagò il pane che era venuta a comprare, e andandosene mi fece segno di seguirla all'insaputa del fornaio. Io cercavo sempre il modo di liberarmi da una metamorfosi tanto strana quanto la mia. Avevo osservato l'attenzione con cui la donna mi aveva esaminato, e immaginai che forse avesse compreso qualche cosa del mio infortunio e delle condizioni penose in cui ero ridotto, e non mi ingannavo. Nondimeno la lasciai uscire, contentandomi di guardarla. Dopo aver fatto due o tre passi lei si volse, e vedendo che la guardavo soltanto, senza muovermi dal mio posto, mi fece segno di seguirla. Allora non dubitai più, e vedendo che il fornaio era occupato a pulire il forno per cuocere del pane, e che non badava a me, saltai giù dal banco e seguii quella donna che mi parve ne fosse molto lieta. Dopo aver fatto un buon tratto di cammino, essa giunse a casa sua, ne aprì la porta, e quando fu entrata, tenendo la porta aperta: «Entra, entra», mi disse, «e non ti pentirai di avermi seguita!». Quando fui entrato ed ella ebbe chiusa la porta, vidi una damigella d'una grande bellezza che ricamava. Era la figlia della donna caritatevole che mi aveva portato lì, abile ed esperta nell'arte magica, come ben presto seppi. «Figlia mia», disse la madre, «io ti conduco il famoso cane del fornaio, che sa così bene distinguere le monete false dalle buone. Tu sai che ti ho detto quel che ne penso fin dalla prima volta che se ne è sparsa la voce, asserendo che poteva ben essere un uomo trasformato in cane per qualche malvagità. Oggi mi è venuta l'idea di andare a comprare del pane da quel fornaio e sono stata testimone della verità di ciò che si è detto, e sono riuscita a farmi seguire da questo cane così raro che rappresenta la meraviglia di Bagdàd. Che ne dici, figlia mia? Mi sono ingannata nella mia supposizione?» «Non vi siete ingannata, madre mia», rispose la giovinetta, «e ve lo mostrerò subito.» La damigella si alzò, prese un vaso pieno di acqua, vi immerse la mano, e, gettandomi addosso di quell'acqua, disse: «Se cane sei nato, cane rimani: ma se sei nato uomo, riprendi la forma d'uomo in virtù di questa acqua!». Subito fu rotto l'incantesimo ed io persi l'aspetto di cane, e mi ritrovai uomo come prima. Commosso dalla grandezza del beneficio, mi gettai ai piedi della fanciulla, e, dopo averle baciato il lembo della veste: «Mia cara liberatrice», le dissi, «io apprezzo vivamente la vostra bontà senza pari verso uno sconosciuto, quale io sono, e vi supplico di dirmi ciò che posso fare per ringraziarvene degnamente. Anzi disponete di me come di uno schiavo che vi appartiene a giusto titolo. Io non sono più padrone di me, sono vostro, e perché sappiate chi è il vostro servo, vi narrerò la mia storia in poche parole». Dopo averle detto chi ero, le raccontai del mio matrimonio con Amina, della mia compiacenza, e della mia pazienza nel sopportare il suo umore, e dell'indegno modo in cui mi aveva trattato per una inconcepibile malvagità. Dopo ringraziai la madre per l'immensa felicità che mi aveva procurato. «Sidi-Numan», mi disse la giovane, «non parliamo di riconoscenza. Il solo sapere di avere fatto un favore a un onest'uomo, quale voi siete, mi ricompensa a sufficienza. Parliamo d'Amina vostra moglie. Io l'ho conosciuta prima del vostro matrimonio, e sapevo che era una maga, così come essa non ignorava che io avevo qualche cognizione di quell'arte, perché avevamo preso lezione dalla stessa maestra. Ci incontravamo spesso al bagno: ma siccome le nostre indoli non s'accordavano, avevo gran cura d'evitare ogni occasione di stringere amicizia con lei: non sono quindi sorpresa della sua malvagità. Per ritornare a ciò che vi riguarda, vi dirò che quanto ho fatto per voi non basta, e che voglio terminare ciò che ho cominciato. Non basta infatti aver rotto l'incantesimo per cui vi aveva escluso dalla società degli uomini, bisogna che la puniate come merita, ritornando in casa vostra, per riprendervi l'autorità che vi appartiene; io ve ne darò il mezzo. Restate qui un momento con mia madre, ritorno subito.» La mia liberatrice entrò in un salottino, e mentre vi restava, io ebbi il tempo di dire un'altra volta alla madre quanto fossi obbligato a lei e a sua figlia. «Mia figlia», ella mi disse, «come avete visto, non è meno esperta in arti magiche di Amina, ma ne fa buon uso, e sareste meravigliato se sapeste tutto il bene che ha fatto e fa ogni giorno grazie alle sue conoscenze di magia. E' per questo che l'ho lasciata fare e che la lascio tuttora fare. Ma non glielo permetterei, se m'accorgessi che ne abusa.» La madre aveva cominciato a raccontarmi alcune delle meraviglie di cui era stata testimone, quando la figlia rientrò con una bottiglietta in mano. «Sidi-Numan», mi disse, «i miei libri, che ho consultato ora per voi, mi dicono che Amina in questo momento non è in casa vostra, ma che deve ritornarvi presto. Mi dicono anche che la dissimulatrice finge, davanti ai vostri domestici, di essere in grande inquietudine per la vostra assenza, e che ha raccontato loro che, mentre pranzavate, vi siete ricordato d'un affare che v'ha obbligato a uscire senza indugio. Uscendo voi avreste lasciato la porta aperta, e un cane sarebbe entrato fino nella sala da pranzo, così che ella avrebbe dovuto cacciarlo a colpi di bastone. Ritornate dunque in casa vostra senza perder tempo, con questa bottiglietta che affido nelle vostre mani. Dopo che vi avranno aperto, restate nella vostra camera finché Amina rientrerà; non vi farà aspettare a lungo. Appena sarà rientrata, discendete nel cortile e presentatevi a lei. Sorpresa di vedervi, contro ogni sua aspettativa, vi volgerà le spalle per prendere la fuga. Allora gettatele addosso dell'acqua di questa bottiglia, pronunciando arditamente queste parole: "Ricevi il castigo della tua malvagità!". E ne vedrete l'effetto, senza che io vi dica di più.» Dopo queste parole della mia benefattrice, che non dimenticai certo, presi congedo da lei e da sua madre con tutte le dimostrazioni della più totale riconoscenza e con sincere proteste di non dimenticare mai quel che dovevo loro; poi ritornai a casa mia. Le cose accaddero come la giovane maga mi aveva detto. Amina non tardò a ritornare, e mentre avanzava, mi presentai a lei con l'acqua in mano, pronto a gettargliela addosso. Ella lanciò un urlo, e si voltò per uscire dalla porta; allora le gettai addosso l'acqua, pronunciando le parole che la giovane maga mi aveva insegnato e subito essa fu trasformata in una cavalla, che è quella stessa che la maestà vostra vide ieri. All'istante, profittando della sua sorpresa, l'afferrai per la criniera e, malgrado la sua resistenza, la trascinai fino nella scuderia. Le posi una cavezza e, dopo averla legata, le rimproverai il suo delitto e la sua malvagità, e la castigai con sonori colpi di scudiscio, fino a che la stanchezza mi obbligò a cessare, riserbandomi peraltro di darle ogni giorno un simile castigo. Gran principe dei credenti - soggiunse Sidi-Numan, terminando la sua storia - io oso sperare che la maestà vostra non disapproverà la mia condotta, ma anzi troverà che una donna così malvagia e pericolosa è trattata con più indulgenza di quanto meriti. Quando il califfo vide che Sidi-Numan non aveva più nulla da dire, esclamò: «La tua storia è straordinaria, e la malvagità della tua sposa è imperdonabile. Per questo non condanno assolutamente il castigo che le hai fatto subire fino ad ora, ma voglio che tu consideri quanto è grande il supplizio di vedersi ridotta al grado delle bestie, e spero che tu ti contenterai di lasciarle far penitenza in questo stato. Ti ordinerei anche di andare dalla giovane maga che l'ha trasformata in tal modo per chiederle di far cessare l'incanto, se non conoscessi l'ostinazione e la durezza incorreggibile dei maghi e delle maghe che abusano della loro arte, e se non temessi da parte sua una vendetta più crudele della prima». Il califfo, per natura dolce e pieno di compassione verso quelli che soffrivano, anche secondo i loro meriti, dopo aver dichiarato la sua volontà a Sidi-Numan, si rivolse al terzo, che il gran visir Giàafar aveva fatto venire. «Cogia Hassan», gli disse, «passando ieri davanti alla tua casa la trovai così bella che ebbi la curiosità di sapere a chi appartenesse e seppi che l'avevi fatta edificare tu, dopo aver fatto un mestiere che ti dava appena di che vivere. Mi fu detto anche che tu non sei montato in superbia per ciò, che fai buon uso delle tue ricchezze, e che i tuoi vicini dicono un gran bene di te. Tutto ciò mi ha fatto molto piacere e sono certo che le vie per cui la provvidenza ha voluto colmarti di doni, devono essere straordinarie. Sono curioso di conoscerle da te e appunto a questo scopo ti ho fatto venire qui. Parla dunque con sincerità, perché io possa partecipare alla tua felicità, conoscendo i fatti. E perché tu non sospetti che io voglia conoscere la tua storia, per qualche altro motivo interessato, che non sia quello che ti ho detto, ti dichiaro subito che non voglio niente da te e, anzi, ti do la mia protezione, perché tu possa godere della tua fortuna in tutta tranquillità.» Dopo queste promesse del califfo, Cogia Hassan si prostrò davanti al trono, con la fronte a terra. Quando si fu rialzato, disse: «Gran principe dei credenti, se non avessi la coscienza pura e tranquilla, avrei potuto turbarmi ricevendo l'ordine di presentarmi qui. Ma poiché non ho mai mancato di rispetto e di obbedienza alla maestà vostra e non ho mai offeso le leggi, così da incorrere nella sua ira, non avevo altro timore se non quello di non poter sostenere la grandezza della sua presenza. Tuttavia la maestà vostra ha una tale fama di bontà, che mi sono fatto coraggio, e ora ho constatato di persona che tale fama corrisponde alla verità. Ella infatti mi accorda la sua protezione, senza neppure sapere se ne sono degno. Spero che mi conserverà il suo favore, anche dopo aver ascoltata la mia storia».

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STORIA DI COGIA HASSAN ALHABBAL

Dopo queste parole cerimoniose, dette per conciliarsi l'animo e l'attenzione del califfo, Cogia Hassan tacque qualche momento per raccogliere le idee e preparare il suo racconto, poi cominciò. Gran principe dei credenti, per meglio far comprendere alla maestà vostra come sono giunto alla grande prosperità di cui godo, devo cominciare a parlare di due amici intimi, cittadini di questa stessa città di Bagdàd; essi vivono ancora e possono testimoniare per me. A loro devo la mia fortuna, oltre che a Dio, naturalmente, primo autore di ogni bene. Questi amici si chiamano Saadi e Saad. Saadi, che è ricchissimo, ha sempre pensato che la felicità a questo mondo sia proporzionale ai beni di fortuna, perché così soltanto si può avere l'indipendenza. Saad la pensa diversamente: egli sostiene che sia opportuno avere ricchezze solo per quel tanto che sono necessarie alla vita, ma che è la virtù che deve formare la felicità degli uomini, senza nessun nesso con la ricchezza, se non in quanto è un mezzo per fare del bene secondo le possibilità di ognuno. Saad vive felice nello stato in cui si trova. Benché Saadi sia, per così dire, infinitamente più ricco di lui, la loro amicizia è sincera e il più ricco non si stima più dell'altro. Il loro accordo è perfetto, salvo su quell'unico punto. Un giorno, mentre parlavano di quell'argomento, come essi stessi mi hanno detto, Saadi sostenne che i poveri erano tali solo perché erano nati nella povertà o, se erano nati con qualche ricchezza, perché l'avevano persa, o per sperpero o per qualche disgrazia imprevedibile, come non di rado accade. «Io credo», disse, «che questi poveri sono poveri solo perché non riescono ad accumulare una somma di denaro sufficiente per togliersi dalla miseria, usando la loro abilità per farla fruttare. E ritengo che se arrivassero a tanto e usassero saggiamente di tale somma, diventerebbero non solo ricchi, ma, col tempo, anche ricchissimi.» Saad non era d'accordo con l'idea di Saadi: «Il mezzo che proponete per far diventare ricco un povero, non mi sembra così sicuro come credete. Il vostro pensiero è equivoco e potrei sostenere la mia idea contro la vostra con buone ragioni che però ci porterebbero lontano. Io credo che, con altrettante probabilità, un povero possa diventare ricco con mezzi diversi da una somma di danaro. Talvolta, per un caso si può fare una fortuna più grande e più sorprendente che con una somma di danaro, come pretendete, per quanta economia o attenzione si possa fare, per moltiplicarla». «Saad», rispose Saadi, «vedo che non la spunterò mai con voi, persistendo a sostenere la mia opinione contro la vostra. Voglio farne l'esperienza per convincervene, regalando, per esempio, una somma come dico io, a uno di questi artigiani, poveri di padre in figlio, che vivono alla giornata e che muoiono in miseria come son nati. Se non riesco, vedremo se voi riuscirete meglio facendo a modo vostro.» Alcuni giorni dopo quella discussione, accadde che i due amici, passeggiando, passarono nel quartiere dove esercitavo il mestiere di cordaio che avevo imparato da mio padre, che l'aveva imparato da mio nonno, che a sua volta l'aveva imparato dai nostri antenati. A vedere i miei arnesi e il mio vestito non durarono fatica a giudicare della mia povertà. Saad si ricordò della scommessa di Saadi: «Se vi siete dimenticato della vostra scommessa con me, ecco un uomo», disse, indicandomi, «che da tempo esercita il mestiere di cordaio e sempre nello stesso stato di povertà. E' un oggetto degno della vostra generosità, ed assai adatto per fare l'esperienza di cui parlavate l'altro giorno». «Me la ricordo molto bene», rispose Saadi, «e non aspettavo che l'occasione di trovarmi con voi perché ne foste testimone. Avviciniamoci e vediamo se è veramente bisognoso.» I due amici vennero da me, e quando vidi che volevano parlarmi, smisi di lavorare. Essi mi salutarono e mi fecero l'augurio di pace; e Saadi, prendendo la parola, mi domandò come mi chiamassi. Io resi loro lo stesso saluto, e per rispondere all'inchiesta di Saadi, dissi: «Signore, il mio nome è Hassan, e a causa della mia professione, sono comunemente chiamato Hassan Alhabbàl!». «Hassan», soggiunse Saadi, «siccome non c'è mestiere che non dia il pane a chi lo esercita, così non dubito che il vostro non vi faccia guadagnare di che vivere a vostro agio, e sono anzi meravigliato che, esercitandolo da tanto tempo, non abbiate fatto qualche risparmio e non abbiate comprato maggior quantità di canapa per fare più lavoro, sia per voi che per gli operai che potreste assumere, per allargare la vostra attività.» «Signore», gli risposi, «non vi meraviglierete più del fatto che non faccio risparmi e non divento ricco, quando saprete che con tutto il mio lavoro duro fatica a guadagnare di che nutrire me e la mia famiglia. Ho moglie e cinque figli, e nessuno di loro è in età di aiutarmi nella minima cosa: bisogna dar loro vitto e vestiti: e in una casa, per piccola che sia, vi sono sempre mille cose necessarie di cui non si può fare a meno. Quantunque la canapa non sia cara, ci vuole nondimeno del denaro per comprarla, ed è questa la prima cosa che metto a parte dalla vendita dei miei lavori. Senza ciò non mi sarebbe possibile provvedere alle spese della mia casa. Giudicate da ciò, signore», aggiunsi, «se è possibile che faccia risparmi; mi accontento del poco che Dio mi manda!» «Hassan», mi disse Saadi, «io non sono più meravigliato come prima, e capisco tutte le ragioni che vi obbligano a contentarvi dello stato in cui vi trovate. Ma se io vi facessi dono d'una borsa di duecento monete d'oro, ne fareste buon uso? E non credete che con simile somma diverreste ben presto ricco, almeno quanto i più ricchi che esercitano la vostra professione?» «Signore», risposi, «voi mi sembrate un uomo onesto; e sono persuaso che non volete beffarvi di me, e che l'offerta che mi fate sia seria. Oso dunque dirvi senza troppo presumere, che una somma assai minore mi basterebbe, non solo per diventare ricco, quanto i migliori della mia professione, ma anche per divenirlo in meno tempo di loro.» Il generoso Saadi mi dimostrò subito che aveva parlato con sincerità. Trasse la borsa e, dandomela in mano, mi disse: «Prendete, ecco la borsa, voi vi troverete duecento monete d'oro. Prego Dio che vi dia la sua benedizione e vi conceda di farne il buon uso che desidero!». Gran principe dei credenti, dopo che ebbi ricevuto la borsa e me la fui riposta in petto, fui così felice e così pieno di riconoscenza, che la parola mi mancò e non mi fu possibile darne altra prova al mio benefattore se non avanzando la mano per prendergli il lembo dell'abito e baciarglielo. Ma egli si rifiutò, ed allontanandosi continuò il cammino col suo amico. Rimettendomi al lavoro, dopo che si furono allontanati, il primo pensiero che mi venne alla mente fu di mettere la mia borsa al sicuro, ma non avevo nella mia piccola e povera casa né forzieri, né armadi adatti. In questa perplessità, siccome avevo l'abitudine, come la povera gente della mia classe, di nascondere i pochi soldi che possedevo nelle pieghe del mio turbante, lasciai il lavoro, ed entrai in casa col pretesto di accomodarlo. Presi così bene le mie precauzioni, che senza farmi accorgere da mia moglie né dai miei figli, estrassi dieci monete d'oro dalla borsa per le spese più pressanti, e avviluppai il resto nelle pieghe della tela del mio turbante. La spesa più importante che feci fin dal primo giorno fu per comperare una buona provvista di canapa. Poi, siccome era molto tempo che non si era vista carne nella mia casa, andai dal macellaio e ne comprai per la cena. Ritornandomene, tenevo la carne in mano, quando un nibbio affamato, senza che io potessi difendermi, vi piombò sopra, e me l'avrebbe strappata se non gli avessi resistito. Ohimè! Avrei fatto meglio a lasciargliela, per non perdere la mia borsa. Più il nibbio trovava resistenza in me, più s'ostinava a volerla avere. Trascinandomi da una parte all'altra, mentre si sosteneva nell'aria senza lasciare la presa, avvenne sciaguratamente che il mio turbante cadde per terra. Subito il nibbio lasciò la carne e si gettò sul turbante, prima che avessi il tempo di raccoglierlo, e lo rubò. Io gettai delle grida così acute, che gli uomini, le donne ed i fanciulli del vicinato furono spaventati, e unirono le loro grida alle mie per cercare di far lasciare la preda al nibbio: ma fu tempo perso. lo tornai a casa molto rattristato della perdita del mio turbante e del mio denaro. Intanto fu necessario comprare un altro turbante, il che fece diminuire ancora le dieci monete d'oro che avevo preso dalla borsa. Ne avevo già spese una parte per comprare la canapa e quello che mi restava non bastava certo per realizzare le belle speranze che avevo concepito. Ciò che mi addolorava soprattutto era il pensiero che il mio benefattore sarebbe stato molto scontento quando avrebbe saputo della mia disgrazia e forse, sembrandogli una storia incredibile, l'avrebbe creduta una scusa. Finché durò quanto mi era rimasto delle dieci monete d'oro ce la godemmo, la mia piccola famiglia ed io: ma ricademmo ben presto nello stesso stato e nella stessa miseria di prima. «Dio», dicevo tra me, «ha voluto provarmi, dandomi una ricchezza quando meno me l'aspettavo, e me l'ha tolta nello stesso tempo, perché così gli è piaciuto. Qualunque cosa accada, egli ne sia lodato!» Io ragionavo in questo modo, mentre la mia consorte, cui non avevo potuto fare a meno di comunicare la perdita da me fatta, era inconsolabile. Nel turbamento in cui ero, non ero stato capace di non dire ai vicini che, perdendo il mio turbante, avevo perduto una borsa con centonovanta monete d'oro; ma siccome la mia povertà era loro ben nota, non potendo comprendere in qual modo avessi guadagnato una somma così grossa col mio lavoro, ne risero molto ed i fanciulli più di loro. Erano circa sei mesi che il nibbio aveva causato la sciagura che ho raccontato alla maestà vostra, quando i due amici passarono dal quartiere in cui io abitavo. La vicinanza fece sì che Saad si ricordasse di me, e dicesse a Saadi: «Non siamo molto lontani dalla strada in cui abita Hassan Alhabbàl; passiamoci e vediamo se le duecento monete d'oro che voi gli avete dato hanno contribuito in qualche modo a metterlo sulla strada che conduce a una fortuna migliore di quella in cui l'abbiamo visto». «Volentieri», rispose Saadi, «da alcuni giorni pensavo a lui, pregustando il piacere che avrò quando potrò rendervi testimone della dimostrazione della mia idea: vedrete un gran cambiamento in lui, ne son sicuro.» Saadi, dopo avermi fatto il solito saluto mi disse: «Ebbene Hassan, non vi domandiamo come sono andati i vostri piccoli affari da quando non vi abbiamo visto, perché avranno preso senza dubbio un miglior andamento, grazie alle duecento monete d'oro che debbono avervi molto contribuito». «Signori», risposi io, rivolgendomi ad ambedue, «provo una grande mortificazione nel dovervi dire che i vostri desideri, i vostri voti, e le vostre speranze, come pure le mie, non hanno avuto il successo che voi dovevate aspettarvi e che io m'ero ripromesso. Durerete fatica a prestar fede all'avventura straordinaria che m'è capitata: vi assicuro, però, da uomo d'onore, e voi dovete credermi, che nulla c'è di più vero di quello che sto per dirvi.» Allora raccontai loro la mia avventura coi medesimi particolari con cui ho avuto l'onore di raccontarla alla maestà vostra. Saadi non mi credette. «Hassan», disse, «voi vi burlate di me e volete ingannarmi: ciò che mi dite è una cosa incredibile; i nibbi non s'attaccano ai turbanti, ma cercano di soddisfare la loro avidità. Voi avete imitato la gente della vostra condizione; se fanno qualche guadagno straordinario, o arriva loro qualche fortuna inaspettata, abbandonano il lavoro e si divertono in gozzoviglie finché il denaro dura e quando hanno mangiato tutto, si trovano nella stessa necessità e negli stessi bisogni di prima. Voi restate nella vostra miseria solo perché lo meritate e perché vi rendeste indegno del bene che vi si fece.» «Signore», dissi, «sopporto tutti questi rimproveri e sono disposto a sopportarne anche altri assai più atroci se lo desiderate, ma li sopporto con tanta maggior pazienza in quanto non credo che ne abbia meritato alcuno. La cosa è tanto nota nel quartiere, che non vi è persona che non possa testimoniarlo. Informatevene voi stesso, e vedrete che non mento.» Saad prese le mie parti e raccontò a Saadi tante altre storie di nibbi non meno sorprendenti, e alla fine Saadi trasse la sua borsa dal petto, e contò ancora duecento altre monete d'oro. «Hassan», mi disse, «volentieri vi farò ancora un regalo di altre duecento monete d'oro: ma badate di metterle in un posto sicuro perché non vi accada di perderle come avete perso le altre, e di fare in modo che esse vi procurino il vantaggio che avreste dovuto procurarvi con le prime.» Io gli dichiarai che sentivo per questa seconda donazione una riconoscenza tanto più grande, in quanto non la meritavo, dopo quello che mi era accaduto, e che non avrei dimenticato il suo consiglio. Avrei voluto proseguire, ma lui non me ne diede il tempo, poiché mi lascio e continuò la passeggiata col suo amico Saad. Non ripresi il lavoro dopo che se ne furono andati; rientrai in casa, dove non trovai mia moglie e i miei figli. Misi da parte dieci monete d'oro e avvolsi le altre centonovanta in un pezzo di stoffa. Dopo averci pensato, decisi di nascondere l'involto in un grande vaso di terra pieno di crusca, che era in un angolo; pensavo infatti che né mia moglie né i miei figli vi avrebbero messo le mani. Mia moglie tornò poco tempo dopo e, poiché mi restava poca canapa, le dissi che andavo a comprarne, senza raccontarle ciò che era accaduto. Mentre ero fuori di casa, un venditore di terra da sgrassare, di cui le donne si servono al bagno, passò per la strada e si fece sentire col suo grido. Mia moglie, che non aveva più di quella terra, chiamò il venditore, e, non avendo denaro, gli chiese se consentiva a darle della terra, in cambio della sua crusca. Il mercante accettò il baratto: essa ricevette la terra da sgrassare, ed il venditore si portò via il vaso con la crusca. Io tornai carico di canapa per quanto ne potevo portare, seguito da cinque facchini carichi come me della stessa merce; ne riempii un soppalco che avevo nella mia casa. Pagai i facchini per la loro fatica, e, dopo che se ne furono andati mi riposai alquanto per rimettermi della stanchezza. Guardai allora dalla parte dove avevo lasciato il vaso di crusca e non lo vidi più. Non posso descrivere alla maestà vostra la mia sorpresa, e l'effetto che produsse in me quello spettacolo. Domandai con ansietà a mia moglie ciò che ne avesse fatto ed ella mi raccontò l'accaduto, come se fosse un grande affare. «Ah, sciagurata!», esclamai, «voi ignorate il male che avete fatto a me, a voi stessa e ai nostri figli, facendo un baratto che ci rovina, senza scampo. Voi avete creduto di vendere della crusca, e invece avete arricchito il venditore di terra da sgrassare di centonovanta monete d'oro che Saadi, accompagnato dal suo amico, mi aveva donato per la seconda volta.» Poco mancò che mia moglie non si disperasse, quando seppe l'errore commesso senza saperlo. Si lamentò, si percosse il petto, si strappò i capelli, e si stracciò l'abito di cui era vestita, esclamando: «Sciagurata che sono! Sono indegna di vivere dopo un inganno così crudele! Dove potrò trovare questo venditore di terra? Io non lo conosco perché è passato per la nostra strada una sola volta, e forse non lo rivedrò mai più. Ah, marito mio», aggiunse, rivolgendosi a me, «voi avete avuto un grandissimo torto non parlando di un affare di tanta importanza. Tutto ciò non sarebbe accaduto se voi mi aveste messa a parte di questo vostro segreto». Non finirei più di parlare se dovessi riferire tutto quello che mia moglie, in preda al dolore, trovò da dire. Vostra maestà non ignora certo quanto siano loquaci le donne, quando hanno un grande dispiacere. «Moglie mia», le dissi, «moderatevi; con le vostre grida e i vostri pianti attirerete tutti i vicini, mentre non c'è bisogno che gli altri siano informati delle nostre disgrazie, poiché, invece di prendere parte alla nostra sciagura e di darci conforto, tutti si divertirebbero a beffarsi della vostra ingenuità e della mia. La miglior cosa che possiamo fare è dissimulare questa perdita e sopportarla pazientemente in modo che non se ne sappia nulla, sottomettendoci interamente alla volontà di Dio. Benediciamolo, invece, perché abbiamo salvato dieci monete d'oro, e l'acquisto che ho fatto ora di canapa ci darà qualche sollievo.» Benché le mie ragioni fossero valide, mia moglie stentò a convincersene. Ma il tempo, che dà sollievo a ogni dolore, finì col calmarla. «Siamo poveri, è vero», le dicevo, «ma che cosa hanno i ricchi più di noi! Abbiamo la stessa aria per respirare, la stessa luce e lo stesso calore. E che vale qualche comodità, se poi dobbiamo tutti morire, noi e loro?» Non tedierò la maestà vostra con questi nostri ragionamenti; basti dire che tanto io, quanto mia moglie ci consolammo e io continuai a lavorare serenamente, come se non avessi avuto quella gran perdita. Ciò che mi preoccupava era il pensiero di ciò che avrei potuto dire a Saadi. Non vedevo altra soluzione che una confessione completa, anche se ciò mi avrebbe dato grande vergogna, pur non avendone nessuna colpa. I due amici tardarono assai a tornare a prendere notizie. Saad ne aveva spesso parlato a Saadi, ma Saadi aveva sempre rimandato. «Più tardi rimandiamo», diceva, «più ricco troveremo Hassan e ne avremo una maggior soddisfazione.» Saad era scettico. «Credete proprio che Hassan avrà fatto miglior uso del vostro danaro in questa seconda occasione? Non vi consiglio di illudervi, perché ne avreste poi una delusione più forte, se doveste trovare il contrario di quanto sperate.» «Non può sempre esserci un uccello che gli porti via il turbante!» ribatteva Saadi. «Hassan avrà preso delle precauzioni questa volta.» «Non ne dubito», rispose Saad, «ma può essere capitato qualche altro incidente. Ve lo ripeto, non siate troppo fiducioso. Vi dirò, anche se ciò può dispiacervi, che ho come un presentimento che la vostra prova sarà un fallimento, e che io riuscirò a dimostrarvi che un uomo povero può diventare ricco con altri mezzi che non il danaro.» Un giorno finalmente, alla fine di una ennesima discussione, Saadi esclamò: «Basta! Voglio mettere in chiaro la faccenda subito. Andiamo a vedere chi di noi ha vinto la scommessa». I due amici vennero a cercarmi. Li vidi venire da lontano e ne fui tanto scosso, che stavo per lasciare il mio lavoro e andare a nascondermi, per non dovermi trovare davanti a loro. Intento nel mio lavoro, finsi di non averli scorti, e non alzai gli occhi per guardarli se non quando, essendo vicini e avendomi dato il saluto di pace, non potei, senza far la figura di villano, dispensarmi dal rispondere. Abbassai subito gli occhi e raccontai la mia ultima disgrazia in tutti i suoi particolari, spiegando loro perché mi trovassero povero come la prima volta che mi avevano visto. Quando ebbi terminato, aggiunsi: «Voi potete dirmi che avrei dovuto nascondere le centonovanta monete d'oro in un altro luogo che non in un vaso pieno di crusca, che sarebbe stato portato via quasi subito. Ma era molto tempo che stava là e non potevo immaginare che in quel giorno stesso, durante la mia assenza, un venditore di terra da sgrassare sarebbe passato proprio quando mia moglie si trovava senza danaro, e che avrebbe fatto con lui il cambio. Potreste dirmi anche che dovevo avvertire mia moglie: ma non credo che persone sagge, come voi siete certamente, mi avrebbero dato questo consiglio. Per quanto poi riguarda il non averli nascosti altrove, quale certezza posso avere che vi sarebbero stati più sicuri?». «Signore», continuai, rivolgendomi a Saadi, «a Dio non è piaciuto che la vostra generosità servisse ad arricchirmi, per uno di quei segreti impenetrabili che noi non dobbiamo cercare di comprendere. Egli mi vuole povero e non ricco. Peraltro io ve ne sono grato come se avessi ottenuto il maggior successo, secondo i vostri desideri.» Tacqui, e Saadi mi disse: «Hassan, quand'anche io fossi persuaso che quanto m'avete detto è vero, come pretendete di farci credere, e che non lo dite per celare le vostre dissolutezze, o la vostra incapacità di fare economie come potrebbe invece essere, mi guarderei bene dal continuare e ostinarmi a fare un'esperienza capace di rovinarmi. Io non mi dolgo delle quattrocento monete d'oro di cui mi sono privato per tentare di togliervi dalla povertà; poiché l'ho fatto per amore di Dio, e mi aspettavo da parte vostra soltanto la soddisfazione di avervi fatto del bene. Se ci fosse qualche cosa di cui pentirmi, sarebbe di essermi rivolto a voi, piuttosto che a un altro che forse ne avrebbe tratto miglior profitto». E rivolgendosi al suo amico, continuò: «Saad, voi avrete capito da quanto ho detto, che non mi do ancora per vinto. Pure vi lascio la libertà di fare la fortuna d'un povero, nel modo con cui l'intendete, e su cui non sono d'accordo; non cercate altra persona che Hassan. Checché possiate dargli, non posso persuadermi che divenga più ricco, se non ha potuto farlo con quattrocento monete d'oro». Saad teneva un pezzo di piombo nella mano e lo mostrava a Saadi. «Voi avete visto», disse, «che ho raccolto questo pezzo di piombo da terra; lo do ad Hassan, e vedrete ciò che varrà per lui.» Saadi esplose in uno scoppio di risa, beffandosi di Saad. «Un pezzo di piombo!», esclamò, «e che può valere ad Hassan più del denaro? E che se ne farà?» Saad, presentandomi il pezzo di piombo, mi disse: «Lasciate che Saadi rida, e prendetelo, ci darete un giorno notizia della fortuna che vi avrà portato». Io credetti che Saad non parlasse seriamente, e che facesse così soltanto per divertirsi. Tuttavia non trascurai di ricevere il pezzo di piombo ringraziandolo, e per contentarlo me lo misi nella veste. I due amici mi lasciarono per terminare la loro passeggiata ed io continuai il mio lavoro. La sera, quando mi spogliai per coricarmi, e mi tolsi la cintura, il pezzo di piombo che Saad mi aveva dato, e a cui non avevo più pensato, cadde per terra: lo raccolsi e lo misi nel primo posto che mi capito. La stessa notte accadde che un pescatore, mio vicino, accomodando le reti trovò che gli mancava un pezzo di piombo. Non ne aveva da sostituire, e non era l'ora di mandarne a comprare, perché le botteghe erano chiuse. Eppure, se voleva avere di che vivere, per sé e la sua famiglia il giorno successivo, bisognava che andasse a pescare due ore prima di giorno. Espresse il suo disappunto alla moglie e la mandò a domandarne nel vicinato per rimediare. La donna obbedì al marito, e andò di porta in porta, dai due lati della strada, senza trovare nulla. Riportò questa risposta a suo marito che le domandò, nominando i vicini uno per uno, se aveva bussato alla loro porta, ed essa rispose di sì. «E da Hassan Alhabbàl?», aggiunse. «Scommetto che non ci siete stata?» «E' vero», rispose la donna, «non ci sono stata perché è troppo lontano, e quando anche me ne fossi presa la briga, credete che ne avrei trovato? Quando non si ha bisogno di nulla, allora è il caso di andare da lui, lo so per esperienza.» «Non conta», soggiunse il pescatore, «siete pigra, ed io voglio che andiate anche là.» La moglie del pescatore uscì protestando e venne a picchiare alla mia porta. Già da tempo dormivo, ma mi svegliai, domandando che cosa volesse. «Hassan Alhabbàl», disse la donna alzando la voce, «mio marito ha bisogno di un poco di piombo per le sue reti. Se per caso ne avete, vi prego di dargliene.» Mi ricordai del pezzo di piombo che Saad m'aveva dato di recente e che, specialmente dopo ciò che m'era accaduto spogliandomi, non potevo aver dimenticato. Risposi alla vicina che ne avevo, e che aspettasse un momento che mia moglie gliene avrebbe dato un pezzo. Mia moglie, che pure s'era svegliata al rumore, si alzò, trovò a tastoni il piombo là, dove le avevo indicato, aprì un poco la porta, e quindi lo dette alla vicina. La moglie del pescatore, lieta di non essere venuta inutilmente, disse alla mia consorte: «Il piacere che fate a mio marito e a me è così grande, che vi prometto tutto il pesce che mio marito prenderà quando getterà le reti la prima volta, e vi assicuro che egli non mi smentirà». Il pescatore, contento di aver trovato contro ogni aspettativa il piombo che gli mancava, approvò la promessa che sua moglie aveva fatta. Quando ebbe terminato d'accomodare le reti, andò a pescare. Egli prese un solo pesce, la prima volta che gettò le reti, ma era un pesce lungo più di un cubito e grosso in proporzione. Poi tirò le reti parecchie altre volte e fu sempre fortunato, ma tra tutti i pesci che prese dopo, non ve ne era uno solo che assomigliasse al primo. Quando il pescatore ebbe terminato la pesca, la prima cura che ebbe fu di pensare a me, e fui estremamente sorpreso mentre lavoravo, di vedermelo davanti con quel pesce. «Caro vicino», mi disse, «mia moglie vi ha promesso questa notte il pesce che avrei preso la prima volta che gettavo le reti, per ringraziarvi del piacere che ci avete fatto, ed io ho approvato la sua promessa. Dio non mi ha concesso per voi se non questo, che vi prego di gradire: se me ne avesse dato piene le reti, tutti i pesci sarebbero stati per voi. Accettatelo, ve ne prego, tale qual è, come se fosse di più.» «Vicino», risposi io, «il pezzo di piombo che vi ho mandato è così poca cosa, che non credevo lo pagaste a così alto prezzo. I vicini debbono soccorrersi gli uni con gli altri nei loro piccoli bisogni: io non ho fatto per voi se non quello che potevo aspettarmi da voi in una occasione simile. Rifiuterei quindi il vostro dono, se non fossi persuaso che me lo fate col cuore: lo ricevo dunque, poiché voi lo volete, e ve ne ringrazio.» Qui ponemmo termine alle nostre cortesie, e io portai il pesce a mia moglie. «Prendete», le dissi, «questo pesce che il pescatore nostro vicino mi ha portato in ricompensa del pezzo di piombo che mandò a chiedere la notte scorsa. Questo è, credo, tutto quanto possiamo sperare di ottenere dal dono che Saad mi fece ieri, promettendomi che mi avrebbe portato fortuna.» Solo allora, le parlai del ritorno dei due amici, e di ciò che era accaduto tra loro e me. Mia moglie rimase imbarazzata, vedendo un pesce così grande e grosso. «Che volete che ne facciamo?», disse. «La nostra graticola va bene solo per arrostire piccoli pesci, e non abbiamo un vaso abbastanza grande per farlo bollire.» «Questa è cosa che riguarda voi», le risposi, «cucinatelo come più vi piacerà, arrosto o bollito. Per me andrà bene.» E ciò detto ritornai al lavoro. Preparando il pesce, mia moglie tirò fuori con le interiora un grosso diamante, che prese per vetro, dopo che l'ebbe ripulito. Aveva sentito parlare di diamanti, e anche se ne aveva visti o maneggiati, non li conosceva abbastanza per riconoscerli. Perciò lo dette al più piccolo dei nostri figli perché si divertisse insieme ai suoi fratelli. La sera, quando la luce fu accesa, i nostri figli, che continuavano il loro giuoco, prendendo a turno il diamante per guardarlo l'uno dopo l'altro, si accorsero che ne emanava luce quando mia moglie nascondeva loro quella della candela, muovendosi per terminare di preparare la cena, e ciò spinse i fanciulli a strapparselo per fare l'esperimento. I più piccoli piangevano quando i maggiori portavano loro via il diamante e così erano costretti a renderlo per calmarli. Ma poiché ai bambini basta una piccola cosa perché si divertano e si bisticcino, noi non ci facemmo caso. Il baccano cessò quando i più grandicelli si misero a tavola con noi e mia moglie ebbe servito i piccini. Dopo cena i bambini si radunarono insieme e ricominciarono lo stesso frastuono di prima. Allora volli sapere quale fosse la ragione del loro litigio e, chiamato il primogenito, gli domandai perché facessero un tale baccano. Egli mi disse: «Padre, è a causa di un pezzo di vetro che manda luce quando lo guardiamo con le spalle rivolte alla candela». Io me lo feci portare e ne feci la prova. Il fatto mi parve così straordinario che chiesi a mia moglie che cosa fosse quel pezzo di vetro. «Non so», mi rispose, «è un pezzo di vetro che ho trovato nel ventre del pesce mentre lo pulivo.» Non intuii più di lei che potesse essere qualcosa di diverso da un pezzo di vetro. Nondimeno spinsi l'esperimento più lontano; dissi a mia moglie di chiudere la lampada nel camino; e, quando lo ebbe fatto, vidi che il preteso pezzo di vetro faceva una luce così grande, che potevamo fare a meno della lampada per coricarci. La feci spegnere e collocai io stesso il pezzo di vetro sulla cappa del camino per rischiararci. «Ecco», dissi, «un altro vantaggio che ci procura il pezzo di piombo datomi dall'amico di Saadi poiché ci fa risparmiare di comprare olio.» Quando i miei figli videro che avevo fatto spegnere la lampada e che il pezzo di vetro vi suppliva, lanciarono grida d'ammirazione così alte, e con tanto rumore, che rimbombarono ovunque nel vicinato. Mia moglie ed io poi accrescemmo il baccano a forza di gridare per farli tacere, e non potemmo aver la meglio su di loro, se non quando si furono coricati e addormentati, dopo aver parlato per un pezzo della luce meravigliosa che usciva dal pezzo di vetro. Ci coricammo dopo di loro; il giorno seguente di buon'ora, senza più pensare al pezzo di vetro andai a lavorare secondo il mio solito. Ciò non può stupire da parte di un uomo che non conosceva i diamanti e non aveva nessuna esperienza del loro valore. Farò notare alla maestà vostra che tra la mia casa e quella del mio vicino, che abitava accanto a noi, c'era solo un sottilissimo muro di separazione. Quella casa apparteneva a un ebreo ricchissimo, gioielliere di professione, e la camera in cui lui e la moglie dormivano confinava con la mia. Essi erano già coricati e addormentati, quando i miei figli avevano fatto quel gran baccano; si erano destati, ed avevano impiegato molto tempo a riaddormentarsi. Il giorno seguente la moglie dell'ebreo, a nome di suo marito e suo, venne a lamentarsi con la mia di aver interrotto il loro sonno, quando erano nel pieno. «Mia buona Rachele» (così si chiamava la moglie dell'ebreo), le disse mia moglie, «sono addolorata di ciò che vi è accaduto e ve ne faccio le mie scuse. Voi sapete come sono i bambini: un niente li fa ridere, e un niente li fa piangere. Entrate, e vi mostrerò la ragione per cui siete stati svegliati.» L'ebrea entrò, e mia moglie prese il diamante, poiché insomma lo era, e di grande bellezza. Esso stava ancora sul camino, e mia moglie glielo mostrò, dicendo: «Ecco, fu questo pezzo di vetro la causa di tutto quel putiferio che avete udito iersera». Mentre l'ebrea, che se ne intendeva d'ogni tipo di pietre preziose, esaminava quel diamante con ammirazione, lei le raccontò che l'aveva trovato nel ventre del pesce e tutto ciò che le era accaduto. Quando la moglie ebbe terminato, l'ebrea che sapeva come si chiamava, le disse, rimettendole il diamante fra le mani: «Aschad, io credo come voi che questo sia un vetro, ma siccome è più bello del vetro comune, ed io ho un pezzo di vetro quasi uguale, di cui mi adorno qualche volta, e starebbero bene accoppiati, ve lo comprerei, se voleste vendermelo». I miei figli sentendo parlare di vendere il loro balocco, interruppero la conversazione protestando, e pregando la madre di non venderlo, e lei, per calmarli, lo promise. L'ebrea, obbligata a ritirarsi, uscì, ma prima di lasciare mia moglie che l'aveva accompagnata fino alla porta, le disse a bassa voce che se le fosse venuta voglia di vendere il pezzo di vetro, non lo facesse vedere a nessuno, senza avvertirla. L'ebreo era andato nella sua bottega di buon mattino nella strada dei gioiellieri: l'ebrea andò a trovarlo e gli annunciò la scoperta che aveva fatto. Ella gli riferì la grossezza, il peso approssimativo, la bellezza, la bell'acqua e lo splendore del diamante e soprattutto gli disse della sua singolarità nel far luce di notte, e tutto questo sulla testimonianza di mia moglie, tanto più credibile in quanto era molto ingenua. L'ebreo rimandò sua moglie con l'ordine di trattare con la mia, di offrirgliene dapprima poco, quanto avrebbe giudicato opportuno, e di aumentare man mano a seconda delle difficoltà che avrebbe incontrato, e infine di concludere il contratto a qualunque prezzo. L'ebrea, secondo l'ordine di suo marito, parlò a mia moglie in segreto, senza aspettare che si fosse decisa a vendere il diamante, e le chiese se volesse guadagnarne venti monete d'oro. Mia moglie trovò quella somma considerevole per un pezzo di vetro: nondimeno non volle rispondere né sì né no, e disse solamente all'ebrea che non poteva decidere nulla senza parlarne prima con me. Nel frattempo, io, avendo terminato il mio lavoro, ritornai a casa a pranzare, e le trovai che parlavano stando sulla porta. Mia moglie mi fermò, e mi domandò se acconsentivo a vendere il pezzo di vetro che aveva trovato nel ventre del pesce, per venti monete d'oro, che l'ebrea nostra vicina ne offriva. Io non risposi subito, ricordando la sicurezza con cui Saad mi aveva promesso, dandomi il pezzo di piombo, che avrebbe fatta la mia fortuna; l'ebrea credette che non rispondessi perché la somma che mi aveva offerto fosse troppo bassa. «Vicino», mi disse, «ve ne darò cinquanta, siete contento?» Come udii che da venti monete d'oro l'ebrea passava così prontamente a cinquanta, tenni duro, e le dissi che era ben lontana dal prezzo a cui avrei consentito a venderlo. «Vicino», soggiunse, «pigliatevi cento monete d'oro; è molto, e non so nemmeno se mio marito approverà.» A questo nuovo aumento le dissi che volevo centomila monete d'oro, che sapevo che il diamante valeva di più, ma che per far piacere a lei ed a suo marito, da buoni vicini, mi limitavo a questa somma, ma che la volevo assolutamente; se non accettavano questo prezzo, mi sarei rivolto agli altri gioiellieri, che me ne avrebbero dato una somma maggiore. L'ebrea mi confermò nella mia risoluzione dimostrando grande premura di concludere l'affare e, offrendomi a più riprese fino a cinquantamila monete d'oro. Ma io rifiutai. «Non posso», disse, «offrirvi di più, senza il consenso di mio marito. Egli ritornerà stasera. Vi chiedo solo di aspettare che vi parli e che veda il diamante.» Io glielo promisi. La sera quando l'ebreo fu ritornato a casa sua, seppe dalla moglie che non aveva ottenuto nulla, né da mia moglie, né da me, che me ne aveva offerte cinquantamila monete d'oro, e che aveva chiesto il favore di aspettare a venderlo. L'ebreo colse il momento in cui lasciavo il lavoro e ritornavo a casa mia, e mi venne incontro, dicendomi: «Vicino Hassan, vi prego di mostrarmi il diamante che la vostra consorte ha mostrato alla mia». Io lo feci entrare, e glielo mostrai. Siccome era molto buio e la candela non era ancora accesa, si rese subito conto dalla luce che emanava dal diamante e dal suo grande splendore mentre lo tenevo nella mano, che ne era tutta rischiarata, che la moglie gli aveva fatto un racconto fedele. Lo prese, e, dopo averlo esaminato a lungo, non cessando di ammirarlo: «Ebbene vicino» mi disse, «mia moglie mi ha detto di avervene offerto cinquantamila monete d'oro. Per farvi contento, ne offro ventimila di più». «Vicino», risposi io, «vostra moglie vi ha certo detto che io ne chiedo centomila: dunque o me le date, o il diamante resterà a me; non vi sono altre soluzioni intermedie.» Egli mercanteggiò a lungo nella speranza che glielo cedessi a qualche cosa di meno: ma non poté ottenere nulla, e, temendo che lo facessi vedere ad altri gioiellieri, come avrei fatto, non mi lasciò prima di aver concluso il mercato al prezzo che domandavo io. Mi disse che non aveva centomila monete d'oro con sé, ma che il giorno dopo mi avrebbe consegnato tutta la somma prima che passassero ventiquattr'ore, e lo stesso giorno me ne portò due sacchi, ciascuno di mille, come caparra del contratto. Il giorno seguente l'ebreo (non so se avesse chiesto un prestito, o se avesse fatto società con altri gioiellieri) raccolse la somma di centomila monete d'oro, che mi portò all'ora fissata e io gli consegnai il diamante. Così conclusa la vendita del diamante, e ricco, infinitamente al disopra delle mie speranze, ringraziai Dio della sua bontà e della sua generosità, e sarei andato a gettarmi ai piedi di Saad se avessi saputo dove abitava. Avrei fatto lo stesso con Saadi, perché a lui dovevo il primo passo della mia felicità, quantunque non fosse riuscito nel suo intento. Pensai in seguito al buon uso che dovevo fare d'una somma così considerevole. Mia moglie, con l'animo già pieno delle solite vanità del suo sesso, mi propose subito di acquistare ricche vesti per sé e per i figli, e di comprare una casa per ornarla lussuosamente. «Moglie mia», le dissi, «non dobbiamo cominciare con spese di questo genere, lasciate fare a me, e ciò che domandate verrà col tempo. Quantunque il denaro sia fatto per essere speso, bisogna nondimeno agire in modo che produca una ricchezza da cui trarre il necessario senza timore che si esaurisca. E' a questo che penso e da domani comincerò a costruire questa ricchezza.» L'indomani passai la giornata a visitare gente del mio mestiere che non stava meglio di quello che stessi io prima di allora, e dando a tutti del denaro in anticipo, li impegnai a lavorare per me in diversi lavori di corderia, ciascuno secondo la sua attitudine e le sue possibilità, con la promessa che non li avrei fatti attendere e che sarebbero stati pagati puntualmente man mano che mi avrebbero consegnato il lavoro. Il giorno appresso finii d'impegnare anche gli altri cordai a lavorare per me, e da quel momento in poi quanti ve ne sono in Bagdàd continuano a lavorare per me, contentissimi della mia esattezza. Poiché questo gran numero di operai doveva produrre lavoro in proporzione, presi in affitto dei magazzini in vari luoghi, e in ognuno misi un commesso, tanto per ricevere il lavoro quanto per la vendita all'ingrosso e al dettaglio e ben presto in questo modo mi procurai un guadagno e una rendita considerevoli. Poi, per riunire in un solo luogo tanti magazzini dispersi, comprai una grande casa che occupava un vasto terreno, ma che cadeva in rovina: la feci abbattere e ne feci edificare un'altra, che è quella che la maestà vostra vide ieri. Era già qualche tempo che avevo abbandonato la mia antica e piccola casa per venirmi a stabilire in questa nuova, quando Saadi e Saad che non avevano più pensato a me, se ne ricordarono. Fissarono un giorno adatto e passando per la strada, in cui m'avevano sempre visto, furono sorpresi di non trovarmi occupato al mio meschino lavoro, come per il passato. Domandarono che fosse successo di me, se fossi vivo o morto, e furono meravigliatissimi quando seppero che quello di cui chiedevano era divenuto un grosso mercante e che non si chiamava più semplicemente Hassan, ma Cogia Hassan Alhabbàl, cioè il mercante Hassan, cordaio, e che si era fatto costruire in una strada, che indicarono loro, una casa con l'apparenza di un palazzo. I due amici vennero a cercarmi in quella strada: e mentre camminavano, Saadi che non poteva immaginare che il pezzo di piombo datomi da Saad fosse la ragione di tanta fortuna, disse: «Sono assai contento d'aver fatto la fortuna di Hassan Alhabbàl: ma non posso ammettere che mi abbia dette due menzogne per ottenere quattrocento monete d'oro invece di duecento; non posso infatti attribuire la sua fortuna al pezzo di piombo che gli deste, e nessuno lo potrebbe». «Questo è il vostro pensiero», rispose Saad, «ma non il mio ed io non capisco perché volete fare a Cogia Hassan l'ingiustizia di prenderlo per un bugiardo. Abbiate la bontà di convincervi che ci ha detto la verità, che non ha per nulla pensato a tenercela nascosta, e che il pezzo di piombo che gli diedi è l'unica causa della sua fortuna. Lo stesso Cogia Hassan ci rivelerà tutto tra poco.» I due amici giunsero nella strada in cui era la mia casa, facendo questo discorso. Avendo chiesto dove fosse la mia casa, gliela indicarono. Considerandone la facciata, stentarono a credere che fosse quella, ma finalmente bussarono alla porta, e il mio portinaio aprì. Saadi che credeva di commettere una scortesia, prendendo la casa di un signore distinto per la mia, disse al portinaio: «Ci hanno detto che questa è la casa di Cogia Hassan Alhabbàl. Diteci se ci siamo ingannati». «No, signore», rispose il portinaio aprendo la porta più grande, «è proprio questa. Entrate; è nella sala, e troverete fra gli schiavi qualcuno che vi annuncerà.» I due amici mi furono annunciati, ed io li riconobbi appena li vidi apparire. Alzatomi dal mio posto, corsi loro incontro, volendo prender loro il lembo della veste per baciarla; me lo impedirono, e fu necessario che mio malgrado consentissi che mi baciassero. Io li invitai a sedere sopra un sofà; essi volevano che io mi mettessi al posto d'onore, ma io dissi loro: «Signori, io non ho dimenticato d'essere il povero Hassan Alhabbàl, e quand'anche fossi tutt'altro di quel che sono e non avessi con voi quel debito di riconoscenza che invece ho, so quello che vi è dovuto. Vi supplico quindi di non volermi confondere». Essi si sedettero al posto che era loro dovuto, ed io mi sedetti al mio, di fronte a loro. Allora Saadi, prendendo la parola, mi disse: «Cogia Hassan, io non posso esprimere la gioia che provo nel vedervi quasi nello stato che desideravo allorché vi feci il dono, senza farvene rimprovero, delle duecento monete d'oro, tanto la prima che la seconda volta, e sono persuaso che le quattrocento monete abbiano compiuto il cambiamento della vostra fortuna. Una sola cosa mi addolora, ed è di non poter comprendere per quale motivo mi abbiate nascosto due volte la verità, adducendo perdite provocate da contrattempi che mi sono sembrati e che mi sembrano tuttora incredibili. Non è forse stato perché, quando vi vedemmo l'ultima volta, avevate fatto così pochi progressi nei vostri piccoli affari, tanto con le duecento, quanto con le altre duecento monete d'oro, che aveste vergogna di confessarcelo? Io voglio crederlo anticipatamente, e m'aspetto da voi la conferma della mia supposizione». Saad ascoltò questo discorso di Saadi con impazienza e indignazione, e lo manifestò, stando con gli occhi bassi e tentennando il capo. Nondimeno lo lasciò parlare sino alla fine senza aprir bocca, ma quando ebbe terminato: «Saadi», gli disse, «perdonate se prima che Cogia Hassan vi risponda, lo prevengo per dirvi che mi meraviglio della vostra prevenzione contro la sua sincerità, e che persistiate a non voler prestare fede alle assicurazioni che ve ne ha dato anche ora. Vi ho già detto, e di nuovo ve lo ripeto, che gli ho creduto subito, al semplice racconto dei due incidenti che gli sono capitati, e, checché ne possiate dire, sono persuaso che siano veri. Ma lasciamolo parlare, ed egli stesso ci dirà chi di noi due gli rende giustizia». Dopo il discorso dei due amici presi la parola, e parlando a entrambi, dissi: «Signori, mi obbligherei a mantenere il silenzio per sempre su quanto mi domandate, se non fossi certo che la disputa sorta fra voi per causa mia, non può rompere il nodo d'amicizia che unisce i vostri cuori. Parlerò, dunque, poiché così volete: ma prima vi assicuro che lo faccio con la stessa sincerità con cui vi ho narrato finora ciò che mi è accaduto». Allora raccontai ogni cosa punto per punto, come la maestà vostra l'ha udita, senza dimenticare la minima circostanza. Le mie parole non fecero alcuna impressione sull'animo di Saadi, che a dimostrare la sua prevenzione, mi disse, quando ebbi finito di parlare: «Cogia Hassan, l'avventura del pesce e del diamante che avete trovato nel suo ventre mi sembra tanto poco credibile, quanto la storia del rapimento del vostro turbante da parte di un nibbio e del vaso di crusca cambiato con terra da sgrassare. Ma come che siano andate le cose, ho visto che non siete più povero, ma ricco, com'era mia intenzione che diventaste per mio mezzo, e me ne rallegro sinceramente». Siccome era assai tardi, egli si alzò per prendere congedo, e Saad fece lo stesso. Io mi alzai ancora, ed arrestandoli dissi loro: «Signori, permettetemi di domandarvi una grazia che vi prego di non rifiutarmi: accettate che io abbia l'onore di offrirvi una cena frugale, e poi a ciascuno un letto per potervi condurre domani per acqua, ad una piccola casa di campagna che ho comprato per andarvi a prendere aria di tanto in tanto, di là vi condurrò via terra nello stesso giorno ciascuno con un cavallo della mia scuderia». «Se Saad non ha affari che lo chiamino altrove, io acconsento di buon grado», rispose Saadi. «Io non ne ho», disse Saad, «allorché si tratta di godere in vostra compagnia: ma bisogna mandare a casa vostra come a casa mia ad avvertire che non ci attendano.» Feci venire uno schiavo, e mentre essi lo incaricavano di questa commissione, andai ad ordinare la cena. Aspettando l'ora della cena feci vedere la mia casa ai miei benefattori che la trovarono molto grande in rapporto al mio stato. Io li chiamavo benefattori l'uno e l'altro, perché senza Saadi, Saad non mi avrebbe dato il pezzo di piombo, e perché senza Saad Saadi non si sarebbe rivolto a me per darmi le quattrocento monete d'oro che furono in certo modo l'inizio della mia fortuna. Poi li condussi nella sala, dove mi fecero parecchie domande sui particolari dei miei affari; risposi loro in modo che parvero contenti della mia condotta. Finalmente si venne ad avvertirmi che la cena era pronta, e siccome la tavola era posta in un'altra sala, ve li condussi. Ammirarono l'illuminazione, la pulizia e le vivande, che trovarono tutte di loro gusto. Offrii loro anche un concerto vocale e strumentale durante il pasto, e quando fu sparecchiato, li intrattenni con una schiera di ballerini e di ballerine, e con altri divertimenti, sforzandomi di far loro comprendere, per quanto mi era possibile, che ero loro riconoscente. L'indomani, essendo d'accordo con Saadi e Saad di partire di buon mattino per godere del fresco, andammo sulla sponda del fiume prima che il sole fosse alto. C'imbarcammo sopra un battello grazioso ed ornato riccamente, e grazie a sei buoni rematori e alla corrente delle acque, arrivammo alla mia casa di campagna in circa un'ora e mezzo. Scendemmo a terra, e i due amici si fermarono non tanto a considerarne la bellezza dal di fuori quanto ad ammirarne la posizione vantaggiosa per i bei panorami che la rendevano piacevole da tutte le parti. Io li introdussi in tutti gli appartamenti, facendo loro notare gli addobbi, e le comodità, ed essi la trovarono ridente e deliziosa. Entrammo poi nel giardino, dove ciò che maggiormente piacque loro fu un bosco di aranci e di cedri di tutte le specie, carichi di frutta e di fiori da cui l'aria era profumata, piantati lungo i viali ad eguale distanza e innaffiati albero per albero da un ruscelletto di acqua dirottata dal fiume. L'ombra, la freschezza, nell'ora di più grande ardore del sole, il dolce mormorio dell'acqua, l'armonioso cinguettio d'una infinità di uccelli, e molti altri piaceri, li impressionarono tanto che si fermavano quasi a ogni passo, ora per manifestarmi la loro riconoscenza per averli condotti in un luogo delizioso, ora per felicitarmi sull'acquisto che avevo fatto, e con mille altri complimenti. Poi li condussi fino al termine di quel bosco, che è assai lungo e molto largo, e feci loro notare un bosco di grandi alberi, che terminava il mio giardino. Li condussi poi in un padiglione, aperto da tutti i lati, ma ombreggiato da un assembramento di palme che non impedivano la vista, e li invitai ad entrare ed a riposarsi sopra un sofà ornato di tappeti e di cuscini. Due dei miei figli, che avevamo trovato nella casa, poiché ve li avevo mandati da qualche tempo col loro precettore per prendervi aria, ci avevano lasciato per entrare nel bosco, e mentre cercavano dei nidi di uccelli, ne videro uno tra i rami di un grande albero. Essi tentarono dapprima di salirvi; ma non avendo né la forza né l'agilità per farlo, lo mostrarono a uno schiavo ordinandogli di andarlo a prendere. Lo schiavo salì sull'albero, e quando fu giunto fino al nido, fu meravigliato di vedere che era formato con un turbante. Lo prese tale quale era, discese dall'albero, e lo consegnò ai miei figli. Sapendo che la cosa mi avrebbe interessato, esortò i ragazzi a farmelo vedere. «Padre mio, un nido in un turbante», mi disse il primogenito, mentre lo guardavo venire, sprizzando gioia come tutti i bambini che hanno trovato un nido. Saadi e Saad non furono meno sorpresi di me della novità: anzi io lo fui più di loro, perché riconobbi il turbante che mi era stato rapito dal nibbio. Nel mio stupore, dopo averlo esaminato e voltato da tutti i lati, domandai ai due amici: «Signori, avete la memoria tanto buona da ricordarvi che questo è il turbante che portavo il giorno in cui mi parlaste per la prima volta?». «Io non penso», rispose Saad, «che Saadi vi abbia fatto attenzione più di me: ma né lui né io potremo dubitarne se le centonovanta monete d'oro vi si trovano dentro.» «Signore», soggiunsi, «non dubitate che questo sia lo stesso turbante; infatti oltre a riconoscerlo assai bene, mi accorgo dal peso, che non può essere un altro, e ve ne renderete conto voi stesso, se vi prendete la pena di maneggiarlo.» Glielo porsi, dopo averne tolto gli uccelli, che diedi ai miei figli. Egli lo prese tra le mani e lo mostrò a Saadi perché giudicasse del peso che poteva avere. «Voglio credere che questo sia il vostro turbante», mi disse Saadi, «ma ne sarò convinto, quando vedrò le centonovanta monete.» «Almeno signori», dissi, quand'ebbi ripreso il turbante, «osservate bene, ve ne supplico, prima che lo tocchi, che non è solo da oggi che si trova sull'albero, e che lo stato in cui lo vedete, e il nido che vi sta dentro bene accomodato, senza che nessun uomo l'abbia toccato, sono segni certi che vi si trovava dal giorno in cui il nibbio me l'ha rubato e che l'ha lasciato cadere, o posato su quest'albero. Non offendetevi se vi faccio fare questa osservazione, perché ho gran premura di togliervi ogni sospetto di frode da parte mia.» Saad mi secondò nel mio proposito dicendo a Saadi: «Saadi, ciò riguarda voi e non me, poiché io sono già persuaso che Cogia Hassan non c'inganna». Mentre Saad parlava, io tolsi la tela che avviluppava in più giri la berretta che faceva parte del turbante, e ne trassi la borsa che mi era stata data da Saadi, la vuotai sul tappeto davanti a loro e dissi: «Signori, ecco le monete d'oro, contatele, e vedrete che sono giuste». Saadi le dispose per decine fino al numero di centonovanta, e allora, siccome non poteva negare una verità così manifesta, prese la parola e disse: «Cogia Hassan, convengo che queste centonovanta monete d'oro non hanno potuto servire ad arricchirvi, ma le altre centonovanta che avevate nascosto nel vaso di crusca?». «Signore», risposi, «vi ho detto la verità, tanto per quest'ultima somma come per la prima. Voi non vorreste già che mi ritrattassi ora dicendo una menzogna.» «Cogia Hassan», mi disse Saad, «lasciate Saadi del suo parere; io accetto di buon cuore che egli creda che gli siete debitore della metà della vostra fortuna grazie alla seconda somma, basta che riconosca che io ho contribuito per l'altra metà col pezzo di piombo che vi ho dato, e che non metta in dubbio la storia del prezioso diamante che avete trovato nel ventre del pesce.» «Saad», rispose Saadi, «accetto ciò che volete, a condizione che mi lasciate la libertà di credere che non si ammassa denaro senza denaro.» «Come!», interruppe Saad, «se il caso volesse che io trovassi un diamante di cinquantamila monete d'oro e che mi si desse tale somma avrei ottenuto questa somma col denaro?» La disputa non andò oltre. Ci alzammo e rientrando nella casa, poiché il pranzo era servito, ci mettemmo a tavola. Dopo il pranzo lasciai la libertà ai miei ospiti di riposarsi durante il periodo di maggior calore del sole, mentre io andavo a dare ordini al portinaio ed al mio giardiniere. Dopo ciò li raggiunsi e ci trattenemmo a conversare di cose indifferenti: e, quando il gran calore fu passato, ritornammo nel giardino, dove restammo al fresco fino quasi al tramonto del sole. Allora i due amici e io salimmo a cavallo, seguiti da uno schiavo, e giungemmo a Bagdàd, circa alle due di notte, con un bel chiaro di luna. Non so per quale negligenza dei miei servi accadde che mancasse l'orzo in casa mia per i cavalli. I magazzini erano chiusi, e inoltre erano troppo lontani per andarvi a far provviste così tardi. Cercando nel vicinato, uno dei miei schiavi trovò un vaso di crusca in una bottega; comprò la crusca e la portò con tutto il vaso, a condizione che avremmo restituito il vaso il giorno successivo. Lo schiavo vuotò la crusca nella mangiatoia, e nello stenderla in modo che i cavalli ne avessero ciascuno la sua parte, sentì sotto la mano un involto pesante. Me lo portò senza toccarlo, nello stato in cui l'aveva trovato, e me lo presentò, dicendomi ch'era forse quello l'involto di cui mi aveva sentito spesso parlare raccontando la mia storia ai miei amici. Pieno di gioia, dissi ai miei benefattori: «Signori, Dio non vuole che vi separiate da me senza essere prima pienamente convinti della verità di cui non ho cessato di assicurarvi. Ecco», continuai rivolgendomi a Saadi, «le altre centonovanta monete d'oro che ho ricevuto dalle vostre mani: io le riconosco dal panno che le avvolge». Lo sciolsi e contai la somma davanti a loro. Mi feci poi portare il vaso, che riconobbi; e lo mandai a mia moglie facendole domandare se lo conosceva, con l'ordine di non dirle nulla di quanto era accaduto. Essa lo riconobbe subito, e mi mandò a dire che era lo stesso vaso che aveva barattato, quando era pieno di crusca, con terra da sgrassare. Saadi, si arrese finalmente e rinunciò alla sua ostinata incredulità, dicendo a Saad: «Mi dichiaro vinto e riconosco con voi che il denaro non è sempre un mezzo sicuro per ammassarne dell'altro e divenir ricco». Quando Saadi ebbe terminato, gli dissi: «Signore, non oserò proporvi di riprendere le trecentottanta monete che è piaciuto a Dio di far ricomparire oggi per mostrarvi che non sono un bugiardo. Sono persuaso d'altra parte che non me ne avete fatto dono con l'intenzione che ve le rendessi. Per conto mio non pretendo di profittarne, contento di ciò che ho ricevuto altrimenti. Spero perciò che approverete che le distribuisca domani ai poveri affinché Dio ne dia la ricompensa a voi ed a me». I due amici dormirono nuovamente in casa mia quella notte, e il giorno seguente, dopo avermi abbracciato, ritornarono ciascuno a casa propria, contentissimi dell'accoglienza che avevo fatto loro, e lieti di aver visto che non abusavo della fortuna di cui ero debitore a loro, dopo Dio. Io non ho mancato di andare a ringraziarli in casa loro, ciascuno singolarmente: e da quel tempo sono molto onorato di poter coltivare la loro amicizia e continuare a vederli. Il califfo Harùn ar-Rashìd prestava a Cogia Hassan un'attenzione così grande che non si accorse della fine della sua storia se non perché tacque. Gli disse allora: «Cogia Hassan, è da molto tempo che non ho udito nulla di tanto interessante come il racconto delle vie meravigliose per le quali è piaciuto a Dio di renderti felice a questo mondo. Spetta a te di continuare a rendergli grazie col buon uso che farai dai suoi benefici. Io sono contento di annunciarti che il diamante che ha fatto la tua fortuna è nel mio tesoro, e dal canto mio sono lieto di sapere ora come vi è entrato. Ma siccome può essere che resti ancora qualche dubbio nell'animo di Saadi sulla singolarità di questo diamante, che io stimo come la cosa più preziosa e più degna di essere ammirata di quanto posseggo, così voglio che tu lo conduca qui con Saad perché il custode del mio tesoro glielo mostri». Dette queste parole, avendo il califfo con un cenno del capo a Cogia Hassan, a Sidi-Numan ed a Bàba Abdallà manifestato che era contento di loro, essi presero congedo prostrandosi davanti al suo trono, e si ritirarono.

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Califfo.

(dall'arabo khalīfa: successore, vicario). Capo supremo della comunità islamica. I suoi poteri erano quelli di un monarca assoluto, con limitazioni nel campo legislativo, ove l'interpretazione dei testi sacri era riservata ai dottori in scienze religiose. I primi c. furono eletti da parte dei maggiorenti della comunità. Essi furono Abū Bakr (632-634), Omar (634-644), Othmān (644-656) e Alī (656-661). Con Muāwiyya (661-680), fondatore della dinastia omayyade, il califfato divenne ereditario e tale rimase con la dinastia degli Abbasidi fino al 1258.

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